Da chi andremo?
La Ragione della Fede
Riscoprire la Predicazione Intellettiva di Gesù contro la Deriva Emotivizzante
"Signore da chi andremo?
Tu solo hai parole di Vita"
Gesù di Nazareth, figura cardine della storia e della fede la cui eco attraversa i millenni, emerge dalle pagine evangeliche non solo come Messia e taumaturgo, ma anche come maestro insuperabile della comunicazione. Le sue parole hanno scosso fondamenta culturali, plasmato civiltà e continuano a interpellare la coscienza individuale e collettiva con una forza che sfida il tempo. La sua predicazione, cuore pulsante dei quattro Vangeli, è stata oggetto di sterminati studi, interpretazioni e devozione. Eppure, proprio nell'era della comunicazione istantanea e spesso superficiale, diventa cruciale e quanto mai attuale porre una domanda specifica sulla natura della sua strategia persuasiva: a quale facoltà umana Gesù si rivolgeva primariamente per suscitare una fede autentica, profonda e duratura?
Osservando infatti il panorama di molta predicazione contemporanea, sia essa portata avanti da laici engagé o da ministri ordinati, è difficile non notare una tendenza diffusa verso quello che possiamo definire un approccio marcatamente emotivizzante. L'uso studiato del tono di voce, un'enfasi quasi teatrale, il ricorso frequente ad aneddoti strappalacrime, immagini ad effetto o collegamenti arditi sembrano talvolta finalizzati più a stupire, commuovere o generare un'onda di entusiasmo collettivo, che a nutrire l'intelletto con la solida sostanza della Rivelazione. La predicazione, in questi casi, rischia di degradare a una sorta di performance, uno "show emotivizzante" il cui successo pare misurarsi sull'intensità della reazione emotiva immediata dell'uditorio – la commozione visibile, l'applauso scrosciante – e sulla conseguente ammirazione per la "bravura" retorica del predicatore, piuttosto che sulla capacità di comunicare efficacemente le Verità di fede in modo che possano essere comprese, meditate e fatte proprie dalla ragione.
Questa deriva verso l'emotivizzazione, per quanto possa apparire efficace nel breve termine, porta con sé pericoli insidiosi per la salute della fede. Come la parabola del seminatore (Matteo 13, 1-23 e paralleli) potentemente illustra, un'adesione basata prevalentemente sull'emozione del momento, non radicata nella "terra buona" di un intelletto che ascolta, comprende e vaglia, è spesso superficiale ("terreno sassoso") o vulnerabile alle preoccupazioni e seduzioni mondane ("terreno spinoso"). È un entusiasmo destinato a svanire rapidamente di fronte alle prime difficoltà, alle inevitabili aridità della vita spirituale o al confronto con un pensiero critico esigente. Il fedele, nutrito prevalentemente di sollecitazioni sentimentali ma carente di solide basi razionali e di una comprensione profonda dei contenuti della fede, può ritrovarsi spiritualmente fragile e dipendente. Si instaura quasi una sorta di assuefazione: non avendo ricevuto strumenti per pensare la fede, si torna a cercare esperienze emotive sempre nuove e più forti, in un circolo vizioso che allontana dalla necessaria, e talvolta faticosa, opera di studio personale, di meditazione silenziosa dei Testi Sacri e di approfondimento dottrinale – unica via per una fede adulta, consapevole e capace di "rendere ragione della speranza" (1 Pietro 3,15).
È proprio alla luce di questa preoccupante tendenza che l'analisi dello stile comunicativo di Gesù nei Vangeli diventa non solo un esercizio esegetico affascinante, ma una vera e propria necessità pastorale. La tesi centrale che questo testo intende sviluppare e dimostrare, attraverso un'analisi puntuale e argomentata dei testi evangelici, è che Gesù adottò un approccio radicalmente diverso, per non dire diametralmente opposto, a quello emotivizzante. La sua strategia comunicativa privilegiava in modo netto e costante l'appello alla ragione, all'intendimento intellettivo (la synesis e la noesis dei testi greci) e alla libera scelta consapevole dell'ascoltatore. Gesù, sosteniamo con forza, non cercava un seguito conquistato sull'onda dell'emotività o del sentimentalismo passeggero, ma desiderava suscitare una convinzione radicata nella comprensione profonda della Verità che Egli stesso incarnava e annunciava.
Per "predicazione emotivizzante", dunque, chiariamo fin d'ora, intendiamo quella specifica strategia retorica che usa la stimolazione dei sentimenti (pietà, entusiasmo, paura, senso di appartenenza immediata) come strumento primario e leva principale per ottenere l'assenso, con il rischio concreto di aggirare o mettere in secondo piano l'esercizio dell'analisi critica, della valutazione logica e della necessaria ponderazione personale. Il suo frutto è spesso un consenso epidermico, emotivamente intenso ma intellettualmente debole, vulnerabile e dipendente da continui rinforzi esterni.
Al contrario, per "predicazione rivolta alla ragione e all'intendimento intellettivo", che riconosciamo come la cifra distintiva del metodo di Gesù, intendiamo un approccio che:
Sollecita attivamente la riflessione e impone uno sforzo di interpretazione personale (si pensi all'uso costante delle parabole e al monito "Chi ha orecchi per intendere, intenda!").
Si avvale della logica stringente e dell'argomentazione razionale, spesso ancorata all'autorità riconosciuta delle Scritture ebraiche o al buon senso (come emerge chiaramente nei dibattiti con scribi, farisei e sadducei).
Utilizza magistralmente domande penetranti che sfidano le certezze dell'interlocutore, lo costringono a pensare criticamente e a prendere posizione in modo motivato.
Presenta i potenti atti che compie (i miracoli) non solo come prodigi che suscitano stupore, ma come "segni" (soprattutto in Giovanni) densi di significato teologico, che richiedono una decodifica intellettuale per essere compresi nella loro portata rivelativa.
Insiste continuamente sulla necessità vitale della comprensione e dell'intendimento come precondizione per una vera accoglienza del Regno di Dio e del suo messaggio.
Espone con disarmante onestà e senza sconti le esigenze radicali e i costi del discepolato, appellandosi così a una scelta meditata, libera e consapevole ("calcolare la spesa" prima di costruire la torre o partire per la guerra), e non a un impulso emotivo e irriflesso.
Questo non significa, è essenziale ribadirlo con forza, che Gesù fosse un predicatore freddo, un puro intellettualista distaccato dalla realtà umana, o che la sua parola fosse priva di passione e incapace di toccare le corde del cuore. I Vangeli stessi traboccano di testimonianze della sua profonda e viscerale compassione (σπλαγχνίζομαι), della sua gioia esultante nello Spirito, della sua vibrante indignazione di fronte all'ipocrisia e all'ingiustizia, persino delle sue lacrime. Tuttavia, il punto cruciale che emergerà dalla nostra analisi è che queste potenti emozioni – sia quelle vissute e manifestate da Gesù, sia quelle legittimamente suscitate nei suoi ascoltatori – sono presentate come la conseguenza naturale e autentica dell'incontro con la Verità e con la concretezza delle situazioni umane, e non come l'artificio retorico primario attraverso cui Egli mirava a ottenere il consenso o a manipolare la fede. La fede che Gesù cerca è un atto che impegna l'intera persona – intelletto, volontà, affetti – ma Egli sembra bussare con insistenza alla porta dell'intelletto, perché è la Verità compresa, riconosciuta come tale e liberamente accolta, a poter trasformare in modo solido e duraturo il cuore e l'intera esistenza.
Nei capitoli che seguiranno, questo testo si propone dunque di esplorare sistematicamente le diverse modalità attraverso cui Gesù metteva in atto questa sua peculiare pedagogia della ragione nella fede. Analizzeremo l'uso delle parabole, la sua tecnica dialogica, il ricorso alle Scritture, l'enfasi sull'intendimento, l'interpretazione dei miracoli come "segni", la struttura logico-argomentativa di insegnamenti capitali come il Discorso della Montagna, e la radicalità della chiamata al discepolato come appello alla scelta ponderata. Dedicheremo anche spazio a distinguere con chiarezza l'emozione genuina, che ha piena cittadinanza nell'esperienza di fede, dal sentimentalismo come strategia persuasiva potenzialmente fuorviante.
Il nostro obiettivo è duplice e ambizioso: da un lato, offrire una lettura più fedele, profonda e forse anche più esigente della strategia comunicativa usata dal Maestro di Nazareth, liberandola da certe interpretazioni riduttivamente emotive; dall'altro lato, fornire spunti di riflessione critica e, speriamo, di rinnovamento per la pratica della predicazione e della catechesi nel nostro tempo. Riscoprire e rivalutare la via dell'intelligenza della fede, tracciata con tanta sapienza da Gesù stesso, appare oggi non solo un interessante esercizio esegetico e teologico, ma una vera e propria necessità pastorale urgente. È un passo indispensabile per contribuire a edificare una fede più matura, solida, personale e capace di resistere alle intemperie del dubbio e della secolarizzazione; una fede fondata non sulla sabbia mobile di emozioni effimere e cangianti, ma sulla roccia stabile e sicura della Verità compresa, amata e scelta con tutta la mente e tutto il cuore.
Capitolo 1: "Chi ha orecchi per intendere, intenda": La Parabola come Sfida all'Intelletto e Rifiuto dell'Emozione Superficiale
Se vi è una modalità espressiva che incarna la singolarità della predicazione di Gesù, essa è indubbiamente l'uso delle parabole. Queste narrazioni incisive, radicate nella trama della vita quotidiana della Palestina del I secolo – semine e raccolti, dinamiche familiari, strutture sociali – costituiscono il tessuto connettivo di gran parte del suo insegnamento, specialmente nei Vangeli Sinottici. A un ascolto superficiale, potrebbero apparire come racconti edificanti, piacevoli da udire, capaci forse di generare un'immediata risonanza emotiva grazie alla loro concretezza. Tuttavia, un esame più rigoroso, guidato dalla tesi fondamentale di questo testo, svela una realtà ben diversa: le parabole sono tutt'altro che un espediente per catturare l'uditorio attraverso il facile sentimentalismo. Al contrario, esse rappresentano uno degli strumenti più affilati impiegati da Gesù per sfidare l'intelletto, provocare una seria riflessione personale e richiedere un attivo e faticoso lavoro di interpretazione e comprensione da parte dei suoi interlocutori. Gesù non mira a blandire il cuore con emozioni passeggere; attraverso le parabole, Egli ingaggia la mente, costringendola a un impegno cognitivo tutt'altro che scontato.
La stessa formula insistente con cui Gesù introduce o sigilla molte parabole – "Ascoltate!", "Chi ha orecchi [per intendere], intenda!" (cfr. Mc 4:3, 9, 23; Mt 13:9, 43; Lc 8:8, 14:35) – è un manifesto programmatico. Non è un generico invito all'attenzione, né un appello a "sentire" la storia a livello emotivo. È un richiamo diretto ed esigente alla facoltà dell'intendimento (la synesis, la capacità di discernimento e comprensione), alla necessità di andare oltre la scorza narrativa per afferrare un significato recondito, una verità sul Regno di Dio che sfugge alla percezione immediata. Questo appello all'intelligenza traccia una linea netta: c'è un udire epidermico, che si arresta alla lettera o all'emozione fugace, e un intendere profondo, che presuppone un processo intellettuale di decodifica, riflessione e assimilazione.
Le parole con cui Gesù stesso chiarisce ai discepoli il motivo del suo linguaggio parabolico sono illuminanti e confermano questa strategia non-emotivizzante: "A voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato... Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono" (Mt 13:11, 13). Al di là delle complesse implicazioni teologiche, sul piano comunicativo ciò indica che le parabole non sono concepite per una facile persuasione emotiva di massa. Agiscono piuttosto come un reagente intellettuale: occultano la verità a chi si accosta con superficialità, pregiudizio o cuore refrattario ("indurito"), mentre la svelano – o meglio, ne stimolano la faticosa scoperta – a chi si impegna onestamente nella ricerca del senso, a chi possiede quella disposizione interiore all'ascolto intelligente e desidera "intendere". La comprensione non è un dono automatico né un sottoprodotto dell'emozione; è il risultato di un coinvolgimento attivo dell'intelletto, sollecitato e messo alla prova proprio dalla struttura enigmatica della parabola.
Esaminiamo più da vicino alcuni esempi paradigmatici, tenendo conto del loro contesto specifico:
La Parabola del Seminatore (Mt 13:3-9, 18-23 e par.): Più che suscitare commozione per il seme andato perduto, questa parabola-chiave costringe l'ascoltatore a un esame di coscienza intellettuale: quale tipo di "terreno" rappresenta la mia mente, la mia capacità di ricezione della Parola? La strada, il sasso, i rovi, la terra fertile diventano categorie diagnostiche che richiedono un'auto-valutazione razionale degli ostacoli (superficialità, incostanza, preoccupazioni mondane) che impediscono la comprensione e la fruttificazione della Parola. La spiegazione dettagliata fornita ai discepoli conferma che il punto focale è la qualità dell'intendimento e le sue conseguenze pratiche.
Le Parabole della Crescita Nascosta (Granello di Senape, Lievito - Mt 13:31-33 e par.): Queste immagini paradossali (l'infinitesimale che diventa immenso, l'invisibile che trasforma potentemente) non mirano a scaldare il cuore, ma a sfidare la logica comune riguardo alla manifestazione del Regno di Dio. Invitano l'ascoltatore a pensare il Regno in termini contro-intuitivi, opposti alle attese trionfalistiche dell'epoca. Richiedono un'apertura mentale, un'intuizione intellettuale provocata dal paradosso stesso.
La Parabola del Buon Samaritano (Lc 10:29-37): Spesso letta in chiave puramente emotiva (la compassione del Samaritano), questa parabola perde la sua forza dirompente se slegata dal suo contesto. Essa nasce come risposta diretta e tagliente a una domanda intellettuale e capziosa di un Dottore della Legge: "Chi è il mio prossimo?". Gesù non risponde con una definizione astratta, ma con una narrazione che costringe l'interlocutore (il Dottore della Legge) a un radicale ripensamento razionale. Nella cultura giudaica dell'epoca, dopo la separazione tra il Regno del Sud (con capitale Gerusalemme) e il Regno del Nord (con capitale Samaria) i Samaritani erano disprezzati dalle autorità giudaiche, considerati eretici, apostati e impuri. Ponendo il Samaritano come modello di “chi è il mio prossimo” Gesù chiede alla fine: "Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?" L'unica risposta possibile è "il Samaritano" e quindi Gesù sta dicendo al Dottore della Legge che il suo prossimo è il Samaritano. Gesù non sta solo elogiando la compassione; sta obbligando il Dottore della Legge, attraverso un ragionamento induttivo basato sulla storia, a riconoscere come "prossimo" proprio colui che la sua teologia e cultura gli imponevano di odiare. L'eventuale emozione è subordinata allo shock intellettuale e alla necessità di una ridefinizione logica e teologica del concetto di prossimità. Perchè tutti siamo capaci di soccorrere un disgraziato percosso dai briganti, ma nessuno, se non sotto l'azione della Grazia, è capace di considerare “prossimo” qualcuno che viene giudicato eretico e impuro.
La Parabola del Figlio Prodigo (o con enfasi emotivizzante del Padre Misericordioso - Lc 15:11-32): Anche questa parabola, spesso ridotta a una commovente storia di pentimento e perdono, acquista il suo pieno spessore intellettuale se letta nel suo contesto immediato: la mormorazione di scribi e farisei perché Gesù "accoglie i peccatori e mangia con loro" (Lc 15:2). Secondo una lettura teologica ben fondata, Gesù sta qui costruendo un potente argomento razionale e teologico. Il figlio minore rappresenta la "casa d'Israele" (il Regno del Nord, la Casa di Efraim, considerato disperso, peccatore e contaminato dai pagani – le "pecore perdute della Casa di Israele" a cui Gesù si sente inviato), mentre il figlio maggiore rappresenta la Giudea osservante ma critica e chiusa (scribi e farisei). La parabola, quindi, non è primariamente un appello al sentimento, ma una spiegazione ragionata della logica divina della misericordia, che cerca attivamente chi è perduto e invita alla gioia per il ritrovamento, rimproverando l'atteggiamento auto-giustificante e privo di misericordia del figlio maggiore (e, per estensione, dei suoi critici). Gesù sta offrendo una chiave di lettura teologica della sua missione e della sorprendente economia della grazia di Dio, sfidando l'intelletto dei suoi oppositori a comprendere la vastità del piano divino di riunificazione dei due Regni.
La Necessità di Spiegazione e Riflessione: Il fatto che Gesù dovesse spiegare le parabole in privato ai discepoli (Mc 4:34) e che le parabole stesse spesso si concludano con un invito a "pensare" o "intendere", conferma ulteriormente che l'obiettivo non era l'impatto emotivo immediato, ma una comprensione meditata e assimilata intellettualmente.
In sintesi, l'uso magistrale delle parabole dimostra che Gesù non cercava un pubblico passivo da suggestionare emotivamente. Egli era un pedagogo esigente che utilizzava la narrazione come un bisturi per incidere le convinzioni superficiali, come uno stimolo per attivare le facoltà cognitive, come un invito a intraprendere un percorso di ricerca intellettuale verso la Verità del Regno. La parabola è, dunque, una delle prove più eloquenti della sua preferenza per una fede pensata, una convinzione che sorge dall'illuminazione dell'intelletto piuttosto che dal solo calore del sentimento.
Capitolo 2: Il Maestro del Dialogo e della Domanda: Stimolare la Ragione dell'Interlocutore
Se le parabole rappresentano l'aspetto più narrativo e apparentemente enigmatico della predicazione di Gesù, un'altra modalità comunicativa, altrettanto fondamentale e forse ancora più esplicita nel suo appello all'intelletto, è il suo costante ricorso al dialogo e all'uso strategico della domanda. Lungi dall'essere un monologhista che impone dogmaticamente le sue verità o un oratore che cerca l'applauso attraverso la retorica emotiva, Gesù si rivela nei Vangeli come un interlocutore esigente, un maestro nell'arte di coinvolgere la mente di chi gli sta di fronte, sia esso discepolo, folla o avversario. Il suo metodo dialogico non è una semplice conversazione, ma uno strumento affilato per sondare le convinzioni, smascherare le fallacie logiche, stimolare il pensiero critico e, in ultima analisi, guidare l'interlocutore verso una comprensione ragionata della verità o verso la necessità di una scelta consapevole.
Questo approccio richiama, per certi versi, il metodo socratico, ma con una differenza sostanziale: se Socrate mirava a far partorire la verità già latente nell'interlocutore attraverso la maieutica, Gesù, pur stimolando il ragionamento autonomo, mira anche a rivelare una Verità che trascende la pura logica umana, quella del Regno di Dio e della sua stessa identità. Tuttavia, la via scelta per questa rivelazione passa decisamente attraverso l'attivazione delle facoltà razionali dell'ascoltatore, non attraverso la loro sospensione a favore di un'esperienza puramente emotiva.
L'uso che Gesù fa delle domande è particolarmente significativo e variegato, ma sempre orientato a un fine intellettuale:
Domande che Esigono Posizionamento e Riflessione Personale: Spesso Gesù non fornisce risposte dirette, ma rilancia con domande che obbligano l'interlocutore a pensare con la propria testa e a prendere posizione. Pensiamo alla domanda cruciale rivolta ai discepoli: "La gente, chi dice che sia il Figlio dell'uomo?... Ma voi, chi dite che io sia?" (Mt 16:13, 15). Qui, Gesù non cerca un'acclamazione emotiva, ma sollecita una riflessione personale che culmini in una confessione ragionata della sua identità, basata sull'esperienza e sulla comprensione maturata. Allo stesso modo, domande come "Che ve ne pare?" (Mt 21:28, introducendo la parabola dei due figli) invitano esplicitamente a un giudizio razionale sulla situazione presentata.
Domande che Smascherano Ipocrisie e Dilemmi Logici: Di fronte alle domande insidiose dei suoi avversari (scribi, farisei, sadducei, erodiani), Gesù risponde frequentemente con contro-domande che ne rivelano la malafede o l'inconsistenza logica, costringendoli a un'impasse razionale.
Il Tributo a Cesare (Mt 22:15-22; Mc 12:13-17; Lc 20:20-26): Alla domanda tranello "È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?", Gesù non risponde con un sì o un no che lo avrebbero compromesso politicamente o religiosamente. Chiede invece di mostrargli una moneta e domanda: "Di chi è questa immagine e l'iscrizione?". Una volta ottenuta la risposta ovvia ("Di Cesare"), trae la conclusione logica: "Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio". Ha trasformato una trappola politica in una lezione basata sull'osservazione e sulla deduzione logica, lasciando i suoi interlocutori "ammirati" non per un effetto emotivo, ma per l'acume della sua risposta ragionata.
L'Autorità di Gesù (Mt 21:23-27; Mc 11:27-33; Lc 20:1-8): Quando i capi dei sacerdoti e gli anziani gli chiedono con quale autorità agisca, Gesù replica con una contro-domanda sulla natura del battesimo di Giovanni ("Veniva dal cielo o dagli uomini?"). Questa domanda li mette di fronte a un dilemma logico e politico insormontabile: qualunque risposta dessero, si sarebbero screditati davanti al popolo o avrebbero dovuto riconoscere implicitamente l'autorità divina di Gesù (poiché Giovanni aveva testimoniato di lui). Il loro imbarazzato "Non lo sappiamo" è la prova che la domanda di Gesù li ha costretti a un calcolo razionale delle conseguenze, smascherando la loro incapacità o mancanza di volontà di affrontare la verità.
Domande Basate sulla Scrittura e sulla Logica Teologica: Nei dibattiti dottrinali, Gesù usa domande che richiamano la conoscenza delle Scritture o la coerenza teologica, appellandosi alla capacità di ragionamento dei suoi interlocutori su basi da loro stessi accettate.
La Questione sul Sabato (es. Mc 3:1-6; Lc 14:1-6): Di fronte all'uomo dalla mano paralizzata in giorno di sabato, Gesù chiede: "È lecito in giorno di sabato fare il bene o fare il male, salvare una vita o ucciderla?". Questa domanda appella a un principio etico fondamentale e razionale, sovraordinato alla casistica legale, costringendo gli astanti a confrontarsi con la logica intrinseca della Legge (orientata alla vita e al bene). Il loro silenzio è segno di un'incapacità di confutare la logica stringente di Gesù. Similmente, quando guarisce l'idropico, chiede: "È lecito o no guarire di sabato?", e poi usa un argomento a fortiori basato sul senso comune: "Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo, non lo tira subito fuori in giorno di sabato?". Appella alla loro stessa razionalità pratica per giustificare la sua azione.
La Discussione sulla Risurrezione (Mt 22:23-33; Mc 12:18-27; Lc 20:27-40): Ai Sadducei, che negavano la risurrezione e gli pongono il caso della donna sposata a sette fratelli, Gesù risponde prima smascherando il loro errore logico ("Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture né la potenza di Dio") e poi offrendo un'argomentazione esegetica basata sulla Scrittura: cita l'episodio del roveto ardente (Esodo 3:6) e conclude: "Non avete letto quello che vi fu detto da Dio: 'Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe'? Non è il Dio dei morti, ma dei vivi!". La sua è una dimostrazione logica basata sull'interpretazione del testo sacro, non un appello emotivo alla speranza nell'aldilà.
Domande che Invitano all'Intelligenza della Fede: Gesù loda esplicitamente chi dimostra comprensione intellettuale. Allo scriba che risponde con intelligenza (συνετῶς - synetōs) alla domanda sul primo comandamento, sintetizzando la Legge nell'amore per Dio e per il prossimo, Gesù dice: "Non sei lontano dal regno di Dio" (Mc 12:34). L'approvazione è legata all'intelligenza dimostrata, alla capacità di cogliere il cuore razionale ed etico della Legge, andando oltre la mera osservanza esteriore.
In tutti questi esempi, emerge un tratto costante: Gesù non cerca di sopraffare l'interlocutore con l'emozione, né di estorcergli un consenso irriflesso. Al contrario, lo rispetta come soggetto razionale, lo sfida sul suo stesso terreno (la logica, la Scrittura, il senso comune) e lo invita, attraverso il dialogo e la domanda, a compiere un percorso intellettuale. L'obiettivo è la convinzione che nasce dalla comprensione, anche quando questa comprensione porta a un rifiuto (come nel caso di molti suoi avversari). Gesù sembra preferire un rifiuto consapevole a un'adesione puramente emotiva e superficiale. Il suo metodo dialogico è la prova che Egli credeva nella capacità della ragione umana, illuminata dalla grazia, di avvicinarsi alla Verità.
Capitolo 3: "Sta scritto...": L'Appello alla Scrittura come Argomento Razionale e Teologico
Un pilastro fondamentale su cui si regge l'intera architettura della predicazione e dell'auto-comprensione di Gesù, così come presentata dai Vangeli, è il suo costante e autorevole riferimento alle Scritture ebraiche (l'Antico Testamento per i cristiani). Questa non è una mera decorazione retorica o un appiglio occasionale, ma una strategia argomentativa centrale che rivela, ancora una volta, la sua volontà di fondare la fede richiesta non su un'onda emotiva, ma sulla solidità di una base testuale riconosciuta come divinamente ispirata e sulla coerenza logica tra la sua persona/missione e le profezie/leggi in essa contenute. L'espressione ricorrente "Sta scritto..." (γέγραπται - gegraptai) non è un incantesimo per suggestionare, ma un richiamo preciso a un'autorità oggettiva e a un corpus di testi che richiedono studio, interpretazione e ragionamento per essere compresi nella loro pienezza e nel loro adempimento in Lui.
Quando Gesù cita le Scritture, non lo fa primariamente per suscitare sentimenti di devozione o nostalgia per la tradizione. Lo fa per:
Fondare la Sua Autorità: Gesù basa la legittimità del suo insegnamento e delle sue azioni non sul carisma personale o sull'acclamazione popolare (che pure a tratti riceve), ma sulla sua conformità alla volontà di Dio rivelata nelle Scritture. Egli si presenta come Colui che non viene ad abolire la Legge o i Profeti, ma a "dare pieno compimento" (Mt 5:17). Questo "compimento" non è un atto magico, ma il risultato di una comprensione profonda e di un'attuazione perfetta del senso ultimo della Scrittura, che Egli stesso spiega e argomenta.
Argomentare Teologicamente: Le Scritture sono per Gesù il terreno privilegiato del dibattito teologico. Egli le usa per confutare le interpretazioni errate dei suoi avversari, per chiarire la natura del Regno di Dio, per spiegare la sua identità messianica e per giustificare le sue azioni, anche quelle più scandalose per la mentalità corrente (come il perdono dei peccati o la violazione di certe tradizioni sul sabato).
Le Tentazioni nel Deserto (Mt 4:1-11; Lc 4:1-13): È emblematico che Gesù respinga le tentazioni del diavolo non con manifestazioni di potere emotivo o miracolistico, ma citando puntualmente la Scrittura ("Sta scritto..."). Ogni citazione del Deuteronomio è un'affermazione razionale della priorità di Dio, della sua Parola e del suo culto rispetto alle seduzioni del potere, del possesso e dell'orgoglio. È una battaglia combattuta sul terreno della verità scritturistica e della logica teologica.
L'Insegnamento nella Sinagoga di Nazareth (Lc 4:16-30): Gesù legge un passo del profeta Isaia ("Lo Spirito del Signore è sopra di me...") e dichiara solennemente: "Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete udito". Non chiede un'adesione emotiva alla bellezza del testo, ma propone un'interpretazione audace e autorevole che applica la profezia a sé stesso, richiedendo agli ascoltatori un giudizio intellettuale sulla sua pretesa messianica. La reazione iniziale di stupore si trasforma presto in rifiuto proprio perché la sua affermazione, compresa razionalmente, risulta inaccettabile per loro.
Discussioni sull'Identità del Messia (Mt 22:41-46; Mc 12:35-37; Lc 20:41-44): Gesù sfida la comprensione comune del Messia come semplice figlio di Davide ponendo una domanda basata sul Salmo 110 ("Disse il Signore al mio Signore..."): "Se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?". Non è un gioco di parole per confondere, ma un ragionamento esegetico volto a stimolare una comprensione teologica più profonda della natura del Messia, che trascende la pura discendenza davidica. L'incapacità degli avversari di rispondere evidenzia la forza del suo argomento logico-scritturistico.
Spiegare il Senso della Sua Passione e Risurrezione: Forse l'uso più radicale e intellettualmente esigente della Scrittura da parte di Gesù riguarda la spiegazione del suo destino di sofferenza, morte e risurrezione. Egli presenta questi eventi non come un tragico incidente o un fallimento, ma come il necessario compimento del piano di Dio preannunciato nelle Scritture (cfr. Lc 24:25-27, 44-47). Ai discepoli sulla strada di Emmaus, "cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro (διερμήνευσεν - diermēneusen, interpretò dettagliatamente) in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui". Questo non è un discorso consolatorio basato sul sentimento, ma una poderosa lezione di esegesi biblica, un invito a rileggere e comprendere razionalmente l'intera storia della salvezza alla luce del mistero pasquale. Richiede uno sforzo intellettuale enorme per accettare che la sofferenza e la morte ignominiosa del Messia non solo non contraddicono le Scritture, ma ne costituiscono il culmine previsto e necessario.
L'approccio di Gesù alla Scrittura, quindi, presuppone e richiede un ascoltatore attento e intellettualmente impegnato. Per comprendere le sue argomentazioni, era necessario conoscere le Scritture o, quantomeno, essere disposti a seguirne l'interpretazione, a valutarne la coerenza logica e ad accettare le conclusioni che ne derivavano. Questo metodo si pone agli antipodi di una predicazione che cerca scorciatoie emotive o che si basa su esperienze soggettive svincolate da un fondamento oggettivo e verificabile (per quanto la verifica ultima richieda la fede). Gesù àncora saldamente la sua rivoluzionaria novità alla solida roccia della Rivelazione storica e testuale di Dio, invitando a una fede ragionata, capace di confrontarsi con i testi e di trovarvi il fondamento della propria speranza.
Capitolo 4: Vedere, Ascoltare, Comprendere: L'Enfasi sull'Intelligenza della Fede
Nei capitoli precedenti abbiamo analizzato come Gesù utilizzasse le parabole, il dialogo serrato e l'appello costante alle Scritture per stimolare la ragione e la riflessione dei suoi ascoltatori. Ora è necessario concentrarci su un aspetto ancora più diretto e rivelatore della sua strategia persuasiva: l'insistenza esplicita sull'importanza vitale dell'intendimento, della comprensione intellettuale (σύνεσις - synesis, νόησις - noesis) come condizione necessaria per una vera accoglienza del suo messaggio e per l'appartenenza al Regno di Dio. Gesù non si accontenta di un udito fisico o di una visione superficiale; Egli cerca attivamente e richiede una penetrazione cognitiva della verità che annuncia. Questa enfasi sulla comprensione si pone in netto contrasto con qualsiasi approccio che privilegi una risposta puramente emotiva, istintiva o basata sull'autorità esterna non vagliata dall'intelletto.
Uno dei temi ricorrenti, specialmente nei contesti legati alla predicazione in parabole, è proprio la drammatica distinzione tra il vedere/ascoltare fisico e il percepire/comprendere intellettuale. Citando il profeta Isaia (Isaia 6:9-10), Gesù spiega perché parla in parabole a coloro che sono "fuori": "Perché ‘vedendo non vedano, e udendo non comprendano’, affinché non si convertano e venga loro perdonato" (Mc 4:12; cfr. Mt 13:13-15; Lc 8:10). Al di là della complessa questione teologica della predestinazione o dell'indurimento del cuore, ciò che emerge con chiarezza sul piano comunicativo è che la comprensione intellettuale è presentata come il varco necessario per la conversione e il perdono. La mancanza di comprensione non è un dettaglio secondario, ma un ostacolo fondamentale che impedisce l'accesso alla salvezza offerta. Gesù non sta promuovendo l'ignoranza o l'irrazionalità; sta constatando (e, in un certo senso, provocando attraverso le parabole) una situazione in cui la mancanza di disposizione interiore all'intendimento preclude l'efficacia della Parola.
Questa connessione indissolubile tra comprensione e frutto spirituale è resa esplicita nella spiegazione della Parabola del Seminatore. Mentre i terreni improduttivi rappresentano varie forme di non-ricezione o non-perseveranza, il "terreno buono" è descritto in Matteo come colui che "ascolta la Parola e la comprende (συνιῶν - syniōn); questi porta frutto e produce..." (Mt 13:23). Marco parla di coloro che "ascoltano la Parola, l'accolgono (παραδέχονται - paradechontai, la ricevono con approvazione intellettuale) e portano frutto" (Mc 4:20). Luca menziona coloro che, "dopo aver udito la Parola, la custodiscono (κατέχουσιν - katechousin, la trattengono saldamente, anche intellettualmente) in un cuore onesto e buono, e portano frutto con perseveranza" (Lc 8:15). Sebbene le sfumature varino, il nucleo comune è chiaro: la Parola diventa efficace solo quando non è semplicemente udita emotivamente o accettata passivamente, ma quando è compresa, accolta intellettualmente e trattenuta con consapevolezza. La comprensione è il fattore discriminante che trasforma l'ascolto in fecondità.
Gesù non riserva questa esigenza di comprensione solo alle folle, ma la richiede con forza anche ai suoi discepoli più intimi. Anzi, proprio con loro manifesta talvolta una certa impazienza di fronte alla loro lentezza intellettuale. Dopo la moltiplicazione dei pani e la discussione sui pani dimenticati, li rimprovera aspramente: "Perché discutete che non avete pane? Non capite ancora e non comprendete (οὔπω νοεῖτε οὐδὲ συνίετε - oupō noeite oude syniete)? Avete il cuore indurito? Avendo occhi non vedete e avendo orecchi non udite?" (Mc 8:17-18). È significativo come qui la "durezza del cuore" (πώρωσις - pōrōsis), spesso associata a una chiusura emotiva o volitiva, sia direttamente collegata alla mancanza di comprensione intellettuale (non capire, non intendere). Sembra che per Gesù, una vera apertura del cuore non possa prescindere da un'apertura della mente. Anche dopo aver spiegato la parabola sui cibi puri e impuri, si stupisce della loro ottusità: "Siete anche voi così privi di intelligenza (ἀσύνετοι - asynetoi)? Non capite che tutto ciò che entra nell'uomo dal di fuori non può renderlo impuro...?" (Mc 7:18). Queste non sono le parole di un leader che cerca seguaci emotivamente dipendenti, ma di un Maestro che esige dai suoi allievi uno sforzo intellettuale per afferrare la logica profonda del suo insegnamento.
Corrispettivamente, Gesù loda apertamente l'intelligenza dimostrata nella fede. L'episodio dello scriba nel Vangelo di Marco è emblematico (Mc 12:28-34). Dopo aver ascoltato la risposta di Gesù sul primo comandamento, lo scriba non si limita a un'approvazione formale, ma mostra di aver compreso la gerarchia dei valori: "Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico... e amarlo con tutto il cuore, con tutta l'intelligenza (συνέσεως - syneseōs) e con tutta la forza, e amare il prossimo come se stesso, vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici". Vedendo che aveva risposto con intelligenza (νουθεχῶς - nouthechōs, lett. "avendo mente", saggiamente), Gesù gli dice: "Non sei lontano dal regno di Dio". L'elogio di Gesù non è per la devozione dello scriba o per la sua appartenenza religiosa, ma specificamente per la sua capacità intellettuale di cogliere l'essenza spirituale e razionale della Legge, superando una comprensione puramente ritualistica. L'intelligenza della fede è vista come un passo decisivo verso il Regno.
In definitiva, l'insistenza di Gesù sulla necessità di "comprendere", "intendere", "avere intelligenza" rivela che la fede a cui Egli chiama non è un cieco abbandono emotivo, né una semplice adesione a pratiche esteriori. È un coinvolgimento attivo della mente nel processo di accoglienza della Verità. La ragione umana, pur limitata e bisognosa di grazia, non è vista come un ostacolo alla fede, ma come una facoltà essenziale che deve essere impegnata per riconoscere, assimilare e vivere il messaggio del Regno. Gesù si rivolge all'intera persona, ma la porta d'accesso che Egli sembra privilegiare per una trasformazione profonda e duratura è quella dell'intelletto illuminato dalla sua Parola.
Capitolo 5: I Miracoli come "Segni" (Semeia): Oltre lo Stupore, la Lettura Intellettuale dell'Evento
I miracoli rappresentano indubbiamente uno degli aspetti più potenti e memorabili del ministero di Gesù Cristo narrato nei Vangeli. Guarigioni inspiegabili, esorcismi, controllo sulle forze della natura, persino la rianimazione dei morti: sono eventi che, inevitabilmente, suscitano stupore, meraviglia, timore e forte impatto emotivo nelle folle e negli stessi discepoli. Sarebbe quindi facile concludere che Gesù utilizzasse i miracoli proprio come strumento principale per impressionare emotivamente gli astanti, generando un'adesione basata sullo shock del prodigio, una sorta di "fede facile" conquistata attraverso la spettacolarità dell'evento soprannaturale. Tuttavia, un'analisi più approfondita, specialmente alla luce della prospettiva offerta dal Vangelo di Giovanni, rivela una strategia molto più sottile e intellettualmente esigente: i miracoli non sono presentati primariamente come prove di forza fine a se stesse, ma come "segni" (σημεῖα - sēmeia), ovvero come azioni potenti cariche di un significato simbolico e teologico profondo, che puntano all'identità di Gesù e alla natura del Regno che Egli inaugura. Come tali, essi richiedono non solo una reazione emotiva, ma soprattutto un atto di interpretazione, una decodifica intellettuale per coglierne il messaggio e giungere a una fede consapevole.
Il termine "segno" (sēmeion), usato prevalentemente da Giovanni per designare i miracoli di Gesù, è di per sé illuminante. Un segno non è l'oggetto stesso, ma qualcosa che rimanda a qualcos'altro, che indica una realtà più profonda. Sebbene i miracoli di Gesù siano eventi reali che manifestano la potenza e la compassione divina, il loro scopo ultimo, nell'intenzione comunicativa dell'evangelista (e, presumibilmente, di Gesù stesso), non è meramente quello di risolvere un problema contingente (guarire una malattia, sfamare una folla) o di suscitare ammirazione, ma di rivelare chi è Gesù e qual è la sua missione. Per questo, il miracolo-segno deve essere "letto", "interpretato", "compreso" nel suo valore simbolico.
Vediamo alcuni esempi chiave dal Vangelo di Giovanni:
Le Nozze di Cana (Gv 2:1-11): Il primo dei "segni", la trasformazione dell'acqua in vino, non è solo un atto di generosità per salvare una festa. Giovanni sottolinea che Gesù "manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui". Il segno rivela qualcosa sulla persona di Gesù: Egli è Colui che porta il "vino nuovo" dell'era messianica, la gioia sovrabbondante del Regno che supera e trasforma la vecchia realtà (simboleggiata dall'acqua delle purificazioni rituali giudaiche). Comprendere il segno significa riconoscere intellettualmente in Gesù l'iniziatore dei tempi nuovi annunciati dai profeti. La fede dei discepoli non nasce solo dallo stupore, ma da questa prima, germinale comprensione della sua identità.
La Guarigione del Figlio del Funzionario Regio (Gv 4:46-54): Questo secondo segno non è accompagnato da spiegazioni simboliche elaborate, ma è legato a una precisa richiesta di fede prima della guarigione visibile. Gesù mette alla prova la fede del funzionario, che crede alla parola di Gesù ancor prima di vedere il risultato. Il segno conferma la potenza della parola di Gesù e la sua autorità sulla vita e sulla morte, richiedendo una fiducia ragionata nella sua persona, non solo una reazione emotiva alla guarigione avvenuta.
La Guarigione del Paralitico alla Piscina di Betzatà (Gv 5:1-18): Questo segno, compiuto di sabato, diventa occasione per una rivelazione teologica fondamentale sull'identità e l'autorità di Gesù. La guarigione in sé è quasi secondaria rispetto al dibattito che ne scaturisce. Gesù giustifica la sua azione affermando: "Il Padre mio agisce anche ora e anch'io agisco". Questa affermazione è una pretesa di uguaglianza con Dio che viene compresa intellettualmente dai suoi avversari come una bestemmia ("cercavano ancor più di ucciderlo perché... si faceva uguale a Dio"). Il segno non è un semplice atto di compassione, ma un'azione che rivela una verità teologica sulla relazione tra Gesù e il Padre, richiedendo una presa di posizione ragionata, sia essa di fede o di rifiuto.
La Moltiplicazione dei Pani (Gv 6:1-15) e il Discorso sul Pane di Vita (Gv 6:22-59): Questo è forse l'esempio più chiaro di come il segno debba essere interpretato intellettualmente. La moltiplicazione dei pani suscita un enorme entusiasmo nella folla, che però rimane a un livello superficiale e materiale ("mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati"). Vogliono farlo re, basandosi su una comprensione puramente politica ed emotiva del miracolo. Gesù allora sposta radicalmente il piano, invitandoli a comprendere il significato profondo del segno: Egli stesso è il "pane della vita" disceso dal cielo, che dà la vita vera e eterna. Il lungo discorso che segue è un insegnamento teologico denso e complesso, che richiede uno sforzo intellettuale notevole per essere compreso e accettato ("Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?"). Molti discepoli, incapaci di passare dalla reazione emotiva al miracolo alla comprensione intellettuale della verità rivelata, si scandalizzano e lo abbandonano. La fede che Gesù cerca non è quella basata sul pane materiale, ma quella fondata sulla comprensione e l'accettazione della sua identità come pane spirituale.
La Guarigione del Cieco Nato (Gv 9:1-41): Questo segno è strutturato come un vero e proprio dramma giudiziario in cui la progressiva comprensione intellettuale dell'identità di Gesù da parte del cieco guarito ("È un profeta!", "È il Signore!") si contrappone alla cecità intellettuale e al rifiuto ostinato dei farisei. Il miracolo fisico diventa simbolo della vista spirituale, dell'illuminazione che viene dalla fede in Gesù. Il segno non è solo un evento prodigioso, ma un catalizzatore che costringe a un discernimento razionale e a una scelta: vedere o rimanere ciechi alla verità.
La Risurrezione di Lazzaro (Gv 11:1-44): Il più grande dei segni prima della Pasqua è presentato come la manifestazione definitiva della gloria di Gesù e della sua autorità sulla morte ("Io sono la risurrezione e la vita"). Anche qui, l'evento sconvolgente non è fine a se stesso, ma è finalizzato a suscitare una fede ragionata nella persona di Gesù come Signore della vita. La fede di Marta, pur carica di emozione, è sollecitata da Gesù a una confessione intellettuale precisa: "Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo".
In conclusione, pur riconoscendo l'inevitabile e potente impatto emotivo dei miracoli, l'analisi del loro trattamento nei Vangeli, specialmente in Giovanni, rivela che Gesù li intendeva (e gli evangelisti li presentano) principalmente come "segni" densi di significato teologico. Essi sono inviti a vedere oltre l'evento fisico, a pensare, a interpretare e a comprendere chi è Colui che li compie. La fede autentica che Gesù cerca non si basa sulla semplice meraviglia emotiva suscitata dal prodigio – una meraviglia che può essere superficiale e passeggera – ma sulla comprensione intellettuale del significato del segno e sulla conseguente adesione ragionata alla persona e alla missione di Gesù.
Il Discorso della Montagna (Matteo 5-7), considerato da molti la magna charta del Regno dei Cieli e uno dei vertici dell'insegnamento etico e spirituale di Gesù, offre un ulteriore e potente argomento a sostegno della nostra tesi. Sebbene le sue parole siano cariche di una forza trasformatrice capace di toccare profondamente le corde emotive dell'ascoltatore – pensiamo alla consolazione promessa nelle Beatitudini o alla radicalità delle richieste d'amore – la sua struttura logica, la natura argomentativa di molte sue sezioni e l'appello costante a una comprensione profonda e a una scelta volontaria e ragionata lo qualificano primariamente come un insegnamento rivolto all'intelletto e alla volontà illuminata dalla ragione, piuttosto che come un discorso mirato a suscitare un'adesione puramente sentimentale.
Analizziamo alcuni aspetti chiave della struttura e del contenuto del Discorso:
Le Beatitudini (Mt 5:3-12): Pur essendo fonte di grande consolazione emotiva, le Beatitudini non sono semplici espressioni di empatia. Esse presentano una logica paradossale e contro-intuitiva che sfida le categorie valoriali del mondo. Dichiarare "beati" i poveri in spirito, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia, i perseguitati, richiede all'ascoltatore uno sforzo intellettuale per comprendere la nuova gerarchia di valori inaugurata dal Regno di Dio. Non si tratta di un'emozione immediata, ma di una verità da afferrare con la mente e da scegliere con la volontà, spesso contro le proprie inclinazioni naturali e le aspettative sociali.
Le Antitesi (Mt 5:21-48): Questa sezione è forse la più chiara dimostrazione dell'approccio intellettuale e argomentativo di Gesù. La formula ripetuta "Avete inteso che fu detto agli antichi... Ma io vi dico..." non è un rifiuto emotivo della Legge antica, ma un esercizio di approfondimento radicale del suo significato. Gesù non si limita a enunciare nuovi comandi, ma spiega la logica interiore che li sottende, passando dall'atto esterno all'intenzione del cuore, dalla lettera allo spirito.
Dall'omicidio all'ira e all'insulto.
Dall'adulterio al desiderio impuro coltivato nel cuore.
Dal permesso del ripudio alla radicalità dell'indissolubilità (con la clausola dibattuta).
Dal giuramento falso alla trasparenza del parlare ("Sì, sì; no, no").
- Dalla legge del taglione all'amore per i nemici e alla preghiera per i persecutori.In ogni antitesi, Gesù non si appella al sentimento, ma alla capacità di ragionamento dell'ascoltatore, invitandolo a comprendere la volontà di Dio in modo più profondo e coerente. L'argomento finale sull'amore ai nemici ("Se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?") è un chiaro appello alla logica e alla necessità di una giustizia "superiore" (v. 20) che distingua i discepoli del Regno.
Insegnamenti sull'Elemosina, la Preghiera e il Digiuno (Mt 6:1-18): Anche qui, Gesù non si limita a esortare a queste pratiche pie, ma analizza criticamente le motivazioni errate (il desiderio di essere visti e lodati dagli uomini) e ne spiega la logica corretta: agire per piacere a Dio che "vede nel segreto". L'insegnamento del "Padre Nostro" (Mt 6:9-13), pur essendo una preghiera carica di affetto filiale, è presentato come un modello strutturato e teologicamente denso, che insegna come e cosa chiedere a Dio in modo conforme alla sua volontà. Non è un'effusione emotiva spontanea, ma una preghiera ragionata e ragionevole.
Argomenti contro l'Affanno per le Cose Materiali (Mt 6:19-34): Per distogliere dall'ansia per il cibo e il vestito, Gesù non usa solo immagini poetiche (i gigli del campo, gli uccelli del cielo), ma costruisce veri e propri argomenti logici:
L'argomento a minore ad maius: "Non vale forse la vita più del cibo e il corpo più del vestito?".
L'argomento basato sull'impotenza umana: "Chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?".
L'argomento a fortiori basato sulla provvidenza divina: "Se Dio veste così l'erba del campo..., non farà molto di più per voi, gente di poca fede?".
- L'argomento della priorità logica: "Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta".Questi non sono appelli al sentimento, ma ragionamenti strutturati che mirano a convincere l'intelletto della futilità dell'affanno e della ragionevolezza della fiducia in Dio.
Esortazioni Finali (Mt 7): Il capitolo conclusivo contiene una serie di ammonimenti e insegnamenti (non giudicare, la perla ai porci, chiedete e otterrete, la regola d'oro, la porta stretta, i falsi profeti, la casa sulla roccia) che, pur avendo implicazioni emotive, si basano su principi di discernimento razionale e sulla necessità di una scelta consapevole e coerente tra due vie, due alberi, due fondamenta. La parabola finale delle due case (Mt 7:24-27) è l'apoteosi di questo approccio: la differenza tra il saggio (φρόνιμος - phronimos, prudente, intelligente) e lo stolto (μωρός - mōros) non sta nell'emozione provata ascoltando le parole di Gesù, ma nell'ascoltarle E metterle in pratica, ovvero nel tradurre la comprensione intellettuale in una scelta operativa coerente.
Il Discorso della Montagna, dunque, si presenta come un edificio logico e teologico imponente. Pur essendo esigente e potenzialmente sconvolgente sul piano emotivo, la sua forza persuasiva risiede primariamente nella coerenza interna, nella profondità dell'analisi della Legge e del cuore umano, e nell'appello a un'intelligenza della fede che sappia riconoscere la volontà di Dio e tradurla in pratica. Gesù non cerca discepoli che si commuovano per le Beatitudini ma continuino a vivere secondo la logica del mondo; cerca discepoli che comprendano la logica del Regno e scelgano ragionevolmente di conformarvi la propria vita.
Capitolo 7: "Calcolare la Spesa": La Chiamata a un Discepolato Consapevole e non Impulsivo
La decisione di seguire Gesù, di diventare suo discepolo, rappresenta il culmine dell'accoglienza della sua predicazione. Se, come abbiamo argomentato finora, Gesù mirava a una fede radicata nella comprensione intellettuale, è logico aspettarsi che anche la chiamata concreta alla sequela fosse presentata non come un invito a un'adesione emotiva e irriflessa, ma come una proposta esigente che richiede una valutazione seria, una scelta ponderata e un impegno consapevole. Analizzando i Vangeli, emerge proprio questo quadro: Gesù non nasconde le difficoltà e le radicali esigenze del discepolato; al contrario, le espone con una franchezza disarmante, quasi a scoraggiare entusiasmi superficiali e a sollecitare una decisione basata sulla ragione e sulla volontà libera, pienamente conscia dei costi implicati. L'approccio di Gesù alla chiamata è l'antitesi di un "reclutamento" emotivizzante che punta a numeri facili o a conversioni momentanee.
Le Condizioni Radicali della Sequela: Gesù non edulcora mai la realtà di cosa significhi seguirlo. Le sue parole sono spesso dure, quasi respingenti se lette con una sensibilità puramente sentimentale:
"Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua" (Lc 9:23; cfr. Mt 16:24; Mc 8:34). La croce non è un simbolo emotivo di sofferenza generica, ma l'immagine concreta dell'estrema umiliazione, del rifiuto sociale e della morte imminente. Presentare la croce come condizione preliminare richiede all'aspirante discepolo una seria valutazione intellettuale della propria disponibilità al sacrificio totale.
"Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me" (Mt 10:37). E ancora più radicalmente in Luca: "Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo" (Lc 14:26). Al di là dell'interpretazione del semitismo "odiare" (che significa "amare di meno", "posporre"), l'affermazione è scioccante e costringe a un ragionamento radicale sulle priorità assolute. Non è un appello all'affetto per Gesù, ma una richiesta di riorganizzazione gerarchica consapevole di tutti i legami umani e vitali in funzione del primato assoluto di Cristo e del Regno.
"Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo" (Lc 14:33). Questa richiesta, posta al culmine di una serie di condizioni, elimina ogni possibilità di un discepolato comodo o di compromesso. Richiede una decisione ponderata sul valore relativo dei beni materiali rispetto al valore supremo del Regno.
L'Invito Esplicito a "Calcolare la Spesa": Il Vangelo di Luca riporta due brevi parabole che sono la chiave di volta per comprendere l'approccio intellettuale di Gesù alla chiamata (Lc 14:28-33). Esse seguono immediatamente le dure condizioni appena citate e ne forniscono la cornice interpretativa:
La Parabola della Torre: "Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa (ψηφίζει τὴν δαπάνην - psēphizei tēn dapanēn, letteralmente "calcola con i sassolini", indica un calcolo preciso) e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo...".
- La Parabola del Re che va in Guerra: "Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a consigliare (βουλεύεται - bouleuetai, deliberare, ponderare) se può con diecimila uomini affrontare colui che gli viene contro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda un'ambasceria per chiedere la pace".Gesù stesso applica queste parabole alla sequela: "Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo". L'analogia è trasparente e potente: seguire Gesù è un'impresa seria, come costruire una torre o andare in guerra. Richiede una valutazione preliminare, razionale e realistica delle proprie risorse interiori (fede, determinazione, capacità di rinuncia) e delle esigenze del compito. Gesù non vuole seguaci impulsivi che partono sull'onda dell'entusiasmo per poi abbandonare alla prima difficoltà, rendendosi ridicoli (come il costruttore sprovveduto). Egli chiede una decisione strategica, basata sulla consapevolezza delle proprie capacità (o della necessità di affidarsi alla sua grazia) e sulla piena comprensione dei costi e delle condizioni. È un appello alla prudenza ragionata, non all'impeto sentimentale.
Il Rifiuto dell'Entusiasmo Superficiale: In diverse occasioni, Gesù sembra quasi raffreddare l'entusiasmo di chi si offre di seguirlo senza aver ben ponderato. A uno scriba che dichiara: "Maestro, ti seguirò dovunque tu vada", Gesù risponde con un quadro tutt'altro che allettante: "Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo" (Mt 8:19-20; Lc 9:57-58). Non è un rifiuto, ma un invito implicito a considerare realisticamente la precarietà e l'insicurezza della vita al suo seguito. A un altro che chiede di poter prima seppellire il padre, risponde con la frase enigmatica e radicale: "Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va' e annuncia il regno di Dio" (Lc 9:60). Anche qui, la priorità assoluta del Regno viene affermata in modo da richiedere una scelta intellettuale e volitiva drastica, non una decisione basata sulla convenienza emotiva o sociale.
Il Caso del Giovane Ricco (Mt 19:16-22; Mc 10:17-22; Lc 18:18-23): Questa celebre narrazione illustra perfettamente l'esito di una chiamata radicale che si scontra con un attaccamento non superato razionalmente. Gesù, vedendo la sincerità del giovane, lo ama e gli propone il passo decisivo: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!". La proposta è chiara, la ricompensa celeste è assicurata, ma la condizione è netta. Il giovane "se ne andò triste, perché aveva molte ricchezze". La sua tristezza è forse emotiva, ma la sua decisione è il risultato di un calcolo razionale, seppur orientato da un valore sbagliato: ha valutato le sue ricchezze terrene come un bene superiore alla sequela di Gesù e al tesoro celeste. Gesù non lo trattiene, non cerca di persuaderlo emotivamente, ma rispetta la sua scelta, pur commentandone amaramente la difficoltà per i ricchi di entrare nel Regno.
In sintesi, la chiamata al discepolato che Gesù rivolge non è un appello generico a "sentirsi bene" o a unirsi a un movimento popolare. È un invito personale e radicale a comprendere le esigenze del Regno, a valutare i costi, a decidere le priorità e a impegnare la propria volontà in una scelta consapevole e potenzialmente molto onerosa. È una chiamata che si appella alla libertà responsabile dell'individuo, fondata sulla previa comprensione intellettuale del messaggio e della persona di Gesù.
Nel corso di questo trattato, abbiamo finora argomentato con forza che la strategia persuasiva primaria di Gesù nei Vangeli si rivolge all'intelletto, alla ragione e alla scelta consapevole, piuttosto che a una predicazione mirata a suscitare un'adesione puramente emotiva o sentimentalistica. Tuttavia, sarebbe una lettura parziale e, in ultima analisi, errata dei testi evangelici ignorare o minimizzare la profonda carica emotiva che pervade la figura di Gesù e la sua interazione con le persone. I Vangeli non ci presentano un freddo filosofo o un impassibile legislatore, ma un uomo capace di intense emozioni e il cui messaggio e le cui azioni suscitavano inevitabilmente forti risonanze emotive nei suoi ascoltatori.
Affrontare questo aspetto è cruciale non solo per una comprensione più completa e umana di Gesù, ma anche per definire con maggior precisione la nostra tesi. Il punto centrale non è negare la presenza o la legittimità dell'emozione nell'esperienza di fede suscitata da Cristo, ma distinguere nettamente tra l'emozione autentica, che sorge come risposta genuina alla verità, alla bellezza, alla sofferenza o alla santità incontrate, e il sentimentalismo (o l'"emotivizzazione"), inteso come tecnica retorica che utilizza l'emozione come strumento primario di persuasione, spesso a scapito della riflessione critica e della comprensione profonda. Sosteniamo che Gesù manifestò e suscitò la prima, ma evitò accuratamente la seconda come strategia portante della sua predicazione.
1. Le Emozioni di Gesù: Espressione della Verità del Suo Essere
I Vangeli sono costellati di momenti in cui Gesù manifesta emozioni potenti e autentiche:
Compassione Viscerale (σπλαγχνίζομαι - splanchnizomai): Questo termine, usato frequentemente, indica un'emozione profonda, quasi fisica, che muove Gesù di fronte alla sofferenza delle folle "stanche e sfinite, come pecore senza pastore" (Mt 9:36), dei lebbrosi (Mc 1:41), dei ciechi (Mt 20:34), della vedova di Nain (Lc 7:13). Questa compassione, tuttavia, non è un'emozione fine a se stessa o usata per suscitare pietà in modo manipolatorio. È l'espressione genuina del suo amore e della sua sintonia con la sofferenza umana, ed è quasi sempre il motore che lo spinge all'azione concreta: insegnare, guarire, sfamare. L'azione che segue (l'insegnamento, il segno) è poi ciò che richiede comprensione e fede.
Gioia Esultante: Luca riporta un momento di intensa gioia di Gesù "nello Spirito Santo" quando ringrazia il Padre perché ha nascosto le cose del Regno ai sapienti e ai dotti e le ha rivelate ai piccoli (Lc 10:21). Non è un'allegria superficiale o indotta, ma l'espressione della sua perfetta sintonia con il piano del Padre e della sua gioia per l'accoglienza del Vangelo da parte degli umili.
Ira e Indignazione: Gesù manifesta una forte ira (con tristezza per la durezza dei cuori) di fronte all'ostinazione di chi, nella sinagoga, spiava per vedere se avrebbe guarito di sabato (Mc 3:5). La sua azione più violenta è la cacciata dei mercanti dal Tempio (Mt 21:12-13; Mc 11:15-17; Lc 19:45-46; Gv 2:13-17), accompagnata da parole di fuoco ("Avete fatto della casa di preghiera una spelonca di ladri!"). Questa non è un'ira calcolata per intimidire emotivamente, ma una santa indignazione, espressione del suo zelo per la casa del Padre e della sua reazione alla profanazione e all'ingiustizia. È un'emozione radicata nella verità della sua relazione con Dio e nella sua percezione del bene e del male.
Tristezza e Angoscia: Gesù piange sulla città di Gerusalemme che rifiuta la sua visita (Lc 19:41), si turba profondamente davanti alla tomba dell'amico Lazzaro (Gv 11:33-35) e sperimenta un'angoscia mortale nell'orto del Getsemani (Mt 26:37-38; Mc 14:33-34; Lc 22:44). Queste emozioni rivelano la sua piena umanità e la sua partecipazione profonda al dramma umano e al mistero della sofferenza e della morte, ma non sono usate come leva per ottenere compassione o adesione. Sono manifestazioni autentiche della sua esperienza interiore di fronte alla realtà.
In tutti questi casi, le emozioni di Gesù sono radicate nella realtà delle situazioni o nella verità del suo rapporto con il Padre e con la sua missione. Non appaiono mai come strumenti retorici calcolati per manipolare i sentimenti altrui al fine di ottenere un consenso che non passi per la comprensione e la libera scelta.
2. Le Emozioni Suscitate negli Ascoltatori: Conseguenza dell'Incontro con la Verità
Allo stesso modo, le forti emozioni suscitate da Gesù negli altri (stupore, timore, gioia, senso di colpa, ma anche scandalo, rabbia, rifiuto) sono presentate dai Vangeli come conseguenze dirette dell'incontro con la sua persona straordinaria, con la potenza delle sue azioni e con la radicalità del suo messaggio, piuttosto che come l'obiettivo primario della sua comunicazione.
Lo stupore (θαυμάζειν - thaumazein, ἐκπλήσσεσθαι - ekplēssesthai) di fronte ai miracoli o all'autorità del suo insegnamento è una reazione naturale all'eccezionalità di ciò che si vede e si ode. Ma, come visto nel capitolo sui "segni", Gesù cerca di guidare oltre lo stupore verso la comprensione.
Il timore (φόβος - phobos) che spesso coglie gli astanti dopo un miracolo potente (es. Mc 5:15 dopo l'esorcismo di Gerasa) non è una paura manipolatoria, ma il timore sacro, il riconoscimento della presenza del divino, che dovrebbe portare a una riflessione sulla propria condizione di fronte a Dio.
La gioia di Zaccheo che accoglie Gesù (Lc 19:6) o dei discepoli dopo la risurrezione (Lc 24:41; Gv 20:20) è la risposta naturale alla salvezza incontrata e compresa.
Il senso di colpa e il pentimento, come quello di Pietro dopo il rinnegamento (Mt 26:75; Lc 22:61-62), sono provocati dallo sguardo di Gesù e dal ricordo delle sue parole, che portano a una presa di coscienza intellettuale ed esistenziale del proprio peccato.
Anche le reazioni negative – lo scandalo dei discepoli di fronte al discorso sul Pane di Vita (Gv 6:60-61), l'ira dei suoi compaesani a Nazareth (Lc 4:28), l'odio crescente delle autorità – dimostrano che Gesù non mirava a un consenso emotivo universale. Era disposto a presentare la verità anche quando sapeva che avrebbe suscitato emozioni negative e rifiuto, perché la sua priorità era la fedeltà al messaggio, non la popolarità o l'adesione acritica.
Il sentimentalismo cerca spesso una scorciatoia emotiva per evitare la fatica del ragionamento o la sfida di una verità scomoda. Gesù, invece, sembra impegnare direttamente il nucleo razionale e volitivo dell'ascoltatore, sapendo che l'incontro con la Verità, una volta compresa (o anche solo intravista), non può lasciare emotivamente indifferenti, ma produrrà reazioni autentiche e profonde, siano esse di accoglienza gioiosa o di drammatico rifiuto.
In conclusione, riconoscere la presenza e l'importanza dell'emozione nell'esperienza con Gesù non invalida, ma anzi raffina, la nostra tesi. Gesù non era un predicatore emotivizzante perché non usava l'emozione come strumento primario per aggirare l'intelletto. Le emozioni, sia le sue sia quelle suscitate, erano piuttosto la risposta autentica e inevitabile all'incontro con la realtà profonda delle cose: la sofferenza umana, la santità di Dio, la verità del Regno, la durezza del cuore, il dramma della scelta. Egli cercava una fede che coinvolgesse tutta la persona – mente, cuore, volontà – ma fondata sulla roccia della Verità compresa e liberamente scelta, non sulla sabbia mobile del sentimento passeggero.
Conclusione: Per una Fede Pensata – L'Eredità Intellettuale di Gesù e l'Urgenza di una Predicazione Anti-Emotivizzante
Al termine di questo percorso analitico attraverso i Vangeli, volto a indagare la natura della strategia persuasiva di Gesù di Nazareth, la tesi da cui siamo partiti emerge con rinnovata forza e chiarezza: Gesù, il Verbo fatto carne, ha scelto di rivolgersi primariamente all'intelligenza, alla ragione e alla libera volontà dei suoi ascoltatori, piuttosto che affidarsi a una predicazione prevalentemente emotiva o sentimentalistica. La fede a cui Egli chiama non è un'effusione sentimentale passeggera, ma una convinzione profonda radicata nella comprensione della Verità che Egli incarna e annuncia.
Abbiamo visto come questo approccio intellettualmente esigente si manifesti in ogni aspetto della sua comunicazione:
Nell'uso delle parabole, che non sono semplici racconti toccanti, ma enigmi narrativi che richiedono interpretazione attiva e sforzo di comprensione ("Chi ha orecchi per intendere, intenda").
Nella sua maestria nel dialogo e nell'uso della domanda, che costringono l'interlocutore a pensare criticamente, a smascherare le proprie contraddizioni e a prendere posizione razionalmente.
Nel suo costante e autorevole appello alle Scritture, utilizzate non come feticcio devozionale, ma come solido fondamento argomentativo e teologico per dimostrare la coerenza della sua missione con il piano di Dio.
Nell'insistenza sulla necessità vitale della comprensione (synesis, noesis) come chiave per accedere al Regno e far fruttificare la Parola.
Nella presentazione dei miracoli non come puri spettacoli emotivamente travolgenti, ma come "segni" densi di significato teologico, da decifrare intellettualmente per riconoscere la sua identità divina.
Nella struttura logica e argomentativa di insegnamenti capitali come il Discorso della Montagna, che sfida l'intelletto a comprendere una giustizia "superiore" e a scegliere una via etica ragionata.
Nella presentazione franca e non edulcorata delle esigenze radicali del discepolato, che richiede un "calcolo della spesa", una valutazione ponderata e una scelta consapevole, non un impulso emotivo.
Abbiamo anche chiarito, nel capitolo precedente, che riconoscere questo primato dell'intelletto non significa negare la profonda carica emotiva della persona di Gesù e del suo messaggio. Le emozioni autentiche – la sua compassione, la sua gioia, la sua ira, ma anche lo stupore, il timore o la gioia suscitati negli ascoltatori – sono la conseguenza naturale dell'incontro con la Verità e la realtà, non lo strumento primario di una persuasione che voglia aggirare la ragione. Gesù rispetta troppo la libertà e l'intelligenza umana per cercare scorciatoie emotive. Egli vuole essere creduto non per il sentimentalismo che suscita, ma per la Verità che è e che rivela.
Questa riscoperta della predicazione intellettiva di Gesù non è un mero esercizio accademico. Essa porta con sé un appello urgente e accorato per la Chiesa e per i credenti di oggi, in un tempo in cui, come abbiamo notato nell'introduzione, la tentazione della "predicazione emotivizzante" è forte e diffusa.
In conclusione, l'eredità che Gesù ci lascia è quella di una fede che cerca l'intelligenza, una fides quaerens intellectum (fede che cerca l'intelletto), per usare l'espressione di Sant'Anselmo. È una fede che, pur coinvolgendo tutto l'essere umano – cuore, mente e anima – trova il suo punto di appoggio più solido non nelle sabbie mobili dell'emotivismo, ma nella roccia della Verità riconosciuta dalla ragione illuminata dalla grazia e accolta dalla libertà. Riscoprire e praticare oggi questo approccio intellettualmente onesto ed esigente alla fede e alla sua comunicazione è forse una delle sfide più grandi, ma anche una delle vie più promettenti, per un rinnovamento autentico della vita cristiana nel nostro tempo.
P.O.