IL NOME - Romanzetto senza pretese sull'Apostolo delle Genti
Prologo
Il sole della Siria batteva implacabile sulla carovana. Polvere fine, sollevata dagli zoccoli dei cavalli e dai sandali degli uomini, si depositava come un sudario su vesti e volti, impastando la gola. Sha'ul di Tarso, gli occhi stretti a fessura contro il riverbero accecante dell'ora di sesta, sentiva il sudore colargli lungo la schiena, sotto la tunica di lana grezza. Ma il fuoco che lo divorava dentro era ben più ardente di quello del cielo. Nazareni. Il termine gli sibilava nella mente come un serpente del deserto. Eretici. Blasfemi. Contaminatori della purezza della Legge che gli era stata insegnata ai piedi del grande Gamaliele, nelle sacre aule a Gerusalemme.
La sua mano, callosa e forte, corse istintivamente all'elsa del corto gladio che portava alla cintura, un distintivo della sua cittadinanza romana, utile in quei viaggi attraverso terre infide. Ma l'arma che brandiva con più ferocia, con più incrollabile convinzione, era la sua conoscenza, la sua intransigenza. Poteva argomentare in greco koinè con la scioltezza di chi era nato e cresciuto a Tarso, una metropoli ellenistica vibrante di commerci e filosofie; il latino degli ufficiali e dei decreti imperiali non aveva segreti per lui, lingua del potere e dell'ordine. L'aramaico, la lingua del popolo di Giudea, era il vernacolo della sua quotidianità quando discuteva nelle sinagoghe o interrogava i sospetti. E l'ebraico, ah, l'ebraico... la lingua sacra, la melodia stessa della Torah, il sussurro intimo dell'Eterno. Conoscerla era un privilegio, studiarla un dovere, difenderla da ogni contaminazione una missione incisa a fuoco nella sua anima.
Mentre il suo cavallo procedeva al passo lento, sollevando nuvole di polvere ocra, la mente di Sha'ul ripercorreva i sigilli, le lettere di autorizzazione del Sommo Sacerdote che portava con sé, strette in un rotolo di pergamena sudato nel palmo. Damasco era vicina. Lì, avrebbe stanato senza pietà quei seguaci dell'uomo di Nazareth, quel Yeshua che si proclamava Messia e che i suoi adepti – folli, illusi! – dicevano fosse risorto dai morti. Un inganno, una menzogna perniciosa che minacciava di sgretolare le fondamenta stesse d'Israele, di profanare il Patto Santo.
"È quasi mezzogiorno, rabbi," mormorò uno dei suoi compagni di viaggio, un levita con il volto segnato dal sole, la voce impastata dalla sete e dalla fatica. "La città non dovrebbe essere lontana."
Sha'ul annuì appena, lo sguardo d'aquila fisso sull'orizzonte tremolante, dove la calura distorceva i contorni delle colline. Non c'era spazio per la stanchezza, solo per la gelida determinazione. La Legge doveva essere onorata, l'eresia estirpata con ogni mezzo.
Fu allora che accadde.
Una luce. Non del sole, che pure era al suo zenit, ma qualcosa di infinitamente più potente, una deflagrazione di pura, insostenibile gloria che eruttò dal cielo, inghiottendo il paesaggio arido, i suoi compagni atterriti, lui stesso. Un lampo che non feriva gli occhi mortali, ma li annientava, trapassandogli il cranio come una lancia di fuoco bianco.
Gridò – o meglio fu il grido a strapparglisi dalla gola come una bestia ferita – mentre veniva sbalzato dalla sella, il corpo che urtava la terra dura con una violenza inaudita. L'aria gli fu espulsa dai polmoni in un rantolo. Polvere e terrore gli riempirono la bocca, il naso. Era cieco. Un buio fitto, impenetrabile come la notte più profonda, aveva sostituito la luce abbacinante.
I suoi compagni farfugliavano parole sconnesse, voci distorte dalla paura, ma lui non li sentiva più chiaramente. Un silenzio innaturale, carico di attesa, era calato sulla scena, o forse era il rimbombo assordante nelle sue orecchie che copriva ogni altro suono del mondo.
Poi, nel buio assoluto e nel terrore che gli attanagliava il cuore, una Voce.
Non era il greco delle piazze di Antiochia, né il latino dei tribunali romani, né l'aramaico familiare delle strade di Gerusalemme. Era l'Ebraico. L'Ebraico puro, antico, solenne. La lingua con cui l'Eterno, Benedetto Egli Sia, aveva parlato a Mosè sul Sinai fumante, la lingua con cui i Profeti avevano gridato le loro visioni e i loro moniti, la lingua in cui il suo stesso cuore recitava i Salmi nelle ore di preghiera. Una lingua che non si aspettava di udire fuori dalle mura della sinagoga o dallo studio devoto dei testi sacri, e certamente non in quella situazione, proveniente da una fonte invisibile, onnipotente e terribile.
"Sha’ul, Sha’ul..."
Il suo nome. Pronunciato due volte, con un'eco che sembrava provenire dalle profondità del tempo stesso, dalle fondamenta della creazione. C'era un'inflessione di dolore in quel richiamo, un accento di rimprovero, ma anche... di qualcos'altro, qualcosa che la sua mente, sconvolta e annichilita, non riusciva ancora a decifrare.
"...lamah tird'feni? Qasheh lekha liv'ot ba'darbanot, Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Ti è duro recalcitrare contro i pungoli.”
La grammatica era perfetta, l'accento inconfondibile. Ogni sillaba risuonava con un'autorità che lo schiacciava al suolo più della caduta stessa, un peso che gli opprimeva il petto. Sentì un tremito incontrollabile percorrerlo dalle fondamenta. Chi? Chi poteva parlargli così, nella Lingua Sacra, con tale conoscenza intima del suo operato, accusandolo con parole che evocavano la resistenza inutile di un bue contro il pungolo del mandriano?
Con un filo di voce che a malapena riconobbe come suo, un sussurro rauco che lottava per emergere dalla polvere e dalla confusione Sha'ul chiese, nell'unica lingua che gli sembrava adeguata per rispondere a una tale maestà, l'ebraico della sua preghiera quotidiana, ora tinto di un terrore reverenziale: "Mi attah, Adonì? Chi sei, Signore mio?"
Il silenzio si tese per un istante che parve un'eternità, un vuoto carico di significato. Poi, la Voce rispose, ancora in quell'ebraico che penetrava l'anima, svelando un mistero che avrebbe ridefinito la sua esistenza, il mondo intero, e il significato stesso delle parole che credeva di conoscere:
"Ani Yeshua asher attah rodeph. Io sono Yeshua che tu stai perseguitando.”
Il Nome. Quel Nome che lui stesso perseguitava con tanto zelo. Pronunciato non come un'accusa urlata, ma come una semplice, devastante, ineluttabile dichiarazione di esistenza.
Sha'ul giacque nella polvere della via di Damasco, cieco, il cuore che martellava come un maglio contro le costole, minacciando di frantumarle. Il mondo, come lo conosceva, con le sue certezze granitiche e i suoi nemici ben definiti, era appena andato in frantumi. E dalle sue rovine, qualcosa di radicalmente nuovo, di inimmaginabile, stava per nascere, forgiato nel fuoco bianco di una rivelazione e nelle profondità di una lingua antica quanto la promessa stessa dell'Altissimo.
Parte Prima: Sha'ul, Figlio di Tarso e di Gerusalemme
Capitolo 1: Tarso, Crocevia di Mondi
La cecità fisica che lo aveva avvolto come un sudario sulla via di Damasco era svanita da giorni, sostituita da una vista interiore tanto acuta da far impallidire ogni percezione precedente. Ma prima di quella luce sconvolgente, prima del Nome sussurrato in ebraico dal Cielo, c'era stata Tarso.
Tarso di Cilicia. Un gioiello incastonato sulla costa meridionale dell'Asia Minore, dove il fiume Cidno, freddo e limpido, si gettava nell'azzurro intenso del Mediterraneo. Non era un villaggio polveroso della Giudea, ma una metropoli vibrante, un crogiolo di culture che ribolliva di commerci, filosofie e lingue diverse. Sha'ul vi era nato e cresciuto, e la città gli aveva impresso il suo marchio indelebile.
Suo padre, un ebreo della tribù di Beniamino, fabbricante di tende come da tradizione familiare, gli aveva trasmesso l'amore per la Legge e le Scritture fin dalla più tenera età. In casa, tra le pareti imbiancate a calce, risuonava l'aramaico, la lingua calda e familiare del focolare, la stessa parlata nelle sinagoghe della diaspora, la stessa che, anni dopo, avrebbe udito sulle labbra dei pescatori di Galilea che parlavano del loro Maestro. Era la lingua delle parabole semplici e delle discussioni quotidiane, concreta, radicata nella terra.
Ma appena varcata la soglia di casa, il mondo cambiava suono. Le strade di Tarso, lastricate e affollate, erano un concerto di greco koinè. Mercanti fenici dalla pelle bruciata dal sole contrattavano con marinai egiziani, filosofi stoici con i capelli grigi disquisivano sotto i portici ombrosi, e i bambini, Sha'ul tra loro, correvano e giocavano gridando in quella lingua franca che univa l'Oriente romano. Il greco era l'aria che respirava, la lingua in cui pensava quando la logica e la retorica prendevano il sopravvento, la lingua in cui, un giorno, avrebbe dettato epistole che avrebbero scosso le fondamenta di un impero. Tarso era una città ellenistica fiera, con la sua università che rivaleggiava con quelle di Atene e Alessandria, e Sha'ul, mente acuta e curiosa, assorbiva tutto come una spugna.
Poi c'era il latino. Tarso era anche una città romana, capitale della provincia di Cilicia. Legionari con le loro finiture lucide e i mantelli rossi marciavano per le vie principali, portando l'ordine e la legge di Roma. Editti imperiali, letti in latino da araldi con voce stentorea, risuonavano nelle piazze. Il padre di Sha'ul, e di conseguenza Sha'ul stesso, godeva di un privilegio non comune per un ebreo della diaspora: la cittadinanza romana. Civis Romanus sum. Non era un vanto da poco. Significava diritti, protezione, un passaporto per muoversi liberamente in quel vasto impero. E il latino, con la sua precisione marziale e la sua gravitas giuridica, era la lingua di quel potere, di quell'appartenenza. Sha'ul lo imparò per necessità e per orgoglio, comprendendo che conoscere la lingua dei dominatori era essenziale per navigare le complesse acque della politica e dell'amministrazione. Lo avrebbe usato spesso, nei suoi viaggi, per interloquire con magistrati, centurioni, governatori.
E infine, nascosta nel cuore pulsante della sua identità, c'era la Lingua Sacra: l'ebraico. Non la lingua del mercato o della piazza, ma quella della sinagoga, dello studio profondo della Torah, dei Salmi cantati con devozione che faceva vibrare l'anima. Era la lingua in cui, secondo la tradizione, l'Eterno stesso aveva parlato a Mosè, la lingua con cui aveva inciso i Comandamenti sulle tavole di pietra. L'ebraico era più di un mezzo di comunicazione; era un santuario, un legame diretto con il Patto, con i padri, con la storia stessa del popolo eletto. Ogni lettera, ogni segno, portava con sé un peso di significato, una eco della creazione. Sha'ul, destinato a diventare un fariseo, uno studioso meticoloso della Legge, si sarebbe immerso in essa con una passione che rasentava l'ossessione, cercando la verità nelle sue pieghe più recondite.
Così, il giovane Sha'ul cresceva, i suoi giorni divisi tra il laboratorio di tende di suo padre, dove l'aroma del cuoio e della tela si mescolava alle preghiere in ebraico e alle discussioni in aramaico, e le strade chiassose di Tarso, dove il greco fluiva come il Cidno e l'ombra di Roma si proiettava in latino. Quattro lingue, quattro mondi, che si intrecciavano dentro di lui, forgiando un intelletto versatile e un'identità complessa. Non sapeva ancora come l'Eterno avrebbe usato quel suo bagaglio straordinario, come quelle lingue sarebbero diventate strumenti nelle Sue mani per un compito che avrebbe superato ogni sua immaginazione. Per ora, era un figlio di Tarso, un giovane ebreo romano, curioso del mondo e già infiammato da un profondo, incrollabile amore per la Legge dei suoi padri. Un amore che, presto, lo avrebbe condotto su sentieri di zelo implacabile, prima che una Voce in ebraico gli spezzasse la via e il cuore.
Capitolo 2: Alla Scuola di Gamaliele
L'aria di Tarso, seppur vibrante e cosmopolita, iniziò a stare stretta al giovane Sha'ul. La sua sete di conoscenza, specialmente quella riguardante la Legge mosaica e le tradizioni dei padri, era un fuoco che le pur rinomate scuole della sua città natale non potevano più placare. C'era un solo luogo dove un giovane ebreo zelante e dotato come lui poteva veramente affinare la sua mente e il suo spirito, immergersi fino in fondo nelle profondità della Torah: Gerusalemme. La Città Santa, il cuore pulsante della fede ebraica, il luogo dove il Tempio si ergeva maestoso, testimone del Patto tra l'Eterno e il Suo popolo.
Fu così che, ancora adolescente ma già con la serietà di un uomo maturo, Sha'ul lasciò le rive del Cidno per le aride colline della Giudea. Il viaggio fu lungo e impegnativo, ma ogni passo lo avvicinava al suo destino. Gerusalemme lo accolse con la sua aura di antichità e sacralità, un contrasto netto con la modernità ellenistica di Tarso. Qui l'aramaico era la lingua onnipresente delle strade affollate, dei mercati brulicanti, delle discussioni animate. Sha'ul, già avvezzo a questo idioma fin dall'infanzia, si trovò subito a suo agio, ma era l'ebraico, l'ebraico biblico e quello delle dispute rabbiniche, che ora sarebbe diventato il suo pane quotidiano, l'aria stessa che avrebbe respirato.
Venne ammesso alla scuola di uno dei più illustri maestri del suo tempo, il Rabban Gamaliele il Vecchio, nipote del grande Hillel. Essere un discepolo di Gamaliele non era cosa da poco. Significava sedere "ai suoi piedi", come voleva l'usanza, assorbendo ogni parola, ogni sfumatura di interpretazione della Legge. Gamaliele era un fariseo, ma di vedute relativamente moderate e rispettato anche al di fuori della sua setta per la sua saggezza e il suo equilibrio.
Sotto la sua guida, Sha'ul si immerse nello studio con una dedizione totale, quasi febbrile. Le giornate erano scandite da lunghe ore di lettura, memorizzazione e dibattito. I rotoli della Torah, dei Profeti e degli Scritti venivano sviscerati versetto per versetto, parola per parola, lettera per lettera. Qui, l'ebraico non era solo una lingua da studiare, ma uno strumento di precisione chirurgica per analizzare il testo sacro. Sha'ul imparò a riconoscere le sottigliezze grammaticali, le radici trilittere da cui scaturivano intere famiglie di significati, il peso di ogni singola lettera, vista non come un mero segno fonetico, ma come un simbolo carico di potenza e mistero.
Fu in quegli anni che la sua mente, già abituata alla concretezza della mentalità semitica, venne ulteriormente forgiata. A differenza del pensiero greco, che amava l'astrazione e la speculazione filosofica, l'approccio ebraico alla realtà era radicato nell'esperienza, nell'azione, nel tangibile. Le parole non erano concetti fluttuanti, ma entità vive, che descrivevano azioni reali, oggetti concreti, relazioni vissute. "Giustizia" non era un'idea platonica, ma il compiere atti giusti. "Amore" non era un sentimento etereo, ma la lealtà operosa, la dedizione provata nei fatti.
Sha'ul eccelleva. La sua intelligenza era affilata come un rasoio, la sua memoria prodigiosa, il suo zelo per la Legge più ardente di quello di molti suoi coetanei. Discuteva con passione, citando a memoria interi passi scritturali, difendendo le interpretazioni farisaiche con una logica stringente e una foga che a volte sorprendeva persino i suoi maestri. L'ebraico, con la sua struttura unica, la scrittura da destra a sinistra in cui le consonanti formano lo scheletro della parola e le vocali, non scritte, vengono insufflate dal lettore in base al contesto e alla tradizione, diventava per lui un campo di battaglia intellettuale e spirituale. Imparò a "vedere" oltre la superficie del testo, a cercare le connessioni nascoste tra le parole, i giochi di suono e di significato, la "danza semantica" che rivelava strati sempre più profondi di rivelazione.
Scoprì, ad esempio, come la parola אב (‘Abb, padre) non fosse solo un termine di parentela, ma un concentrato di concetti: la א (Alef), simbolo di forza, guida, autorità – l'Eterno stesso – unita alla ב (Bet), la casa, l'intimità. Il padre, dunque, nella mente di Dio, era la guida autorevole e responsabile della casa. Una definizione che spazzava via ogni romanticismo e imponeva un ruolo preciso, concreto.
La concretezza della lingua permeava ogni aspetto della sua formazione. Quando le Scritture parlavano di "conoscere", non si riferivano a una semplice nozione intellettuale, ma a un'esperienza intima, profonda, quasi un'unione. Quando parlavano di "cuore", non intendevano solo la sede delle emozioni, ma il centro del pensiero, della volontà, della decisione.
Gamaliele, osservando quel giovane allievo così brillante e appassionato, ne riconosceva il potenziale immenso, ma forse intravedeva anche il pericolo insito in un tale zelo, se non fosse stato temperato dalla misericordia e dalla comprensione più ampia del disegno divino. Sha'ul, però, era ancora troppo immerso nella lettera della Legge per coglierne appieno lo spirito più profondo. La sua devozione si stava trasformando in una forma di intransigenza, la sua conoscenza in uno strumento per giudicare e condannare chiunque deviasse, a suo parere, dalla retta via.
Gerusalemme, la scuola di Gamaliele, l'immersione totale nell'ebraico e nella mentalità farisaica, stavano plasmando lo Sha'ul che il mondo avrebbe presto conosciuto: un difensore inflessibile della tradizione, un custode geloso della Legge, pronto a tutto pur di preservare ciò che riteneva essere l'unica, sacra verità. Non immaginava ancora che, un giorno, quella stessa Lingua Sacra, l'ebraico, sarebbe stata usata da una Voce celeste per frantumare le sue certezze e rivelargli una verità ancora più grande, una verità che trascendeva la lettera, pur essendovi profondamente radicata. Per ora, era un allievo modello, un fariseo tra i farisei, il cui nome iniziava a circolare con rispetto e un pizzico di timore nei circoli più osservanti della Città Santa.
Capitolo 3: Il Fuoco dello Zelota
Gli anni sotto la tutela di Gamaliele passarono veloci, trasformando il giovane e promettente studente in un fariseo erudito e rispettato, seppur noto per la sua veemenza. Sha'ul non era tipo da mezze misure. La Legge, per lui, non era un insieme di suggerimenti o un ideale a cui tendere vagamente; era la Parola stessa dell'Eterno, un codice divino da osservare con scrupolosa, assoluta fedeltà in ogni suo minimo precetto. E chiunque osasse sminuirla, reinterpretarla in modi che lui riteneva devianti, o peggio ancora, profanarla, diventava ai suoi occhi un nemico di Dio e del Suo popolo.
Fu in questo clima di fervore religioso e di crescente tensione politica sotto l'occupazione romana che una nuova "setta", come veniva definita con disprezzo, iniziò a far parlare di sé per le strade e nelle sinagoghe di Gerusalemme e della Giudea. Erano i seguaci di un certo Yeshua di Nazareth, un predicatore itinerante che era stato crocifisso dai Romani su istigazione di alcune autorità religiose, ma che i suoi discepoli proclamavano con audacia essere il Messia, il Figlio di Dio, risorto dai morti.
Per Sha'ul, queste affermazioni erano pura bestemmia, un affronto intollerabile. Il Messia, secondo la sua comprensione e quella della maggior parte dei farisei, doveva essere un liberatore politico e spirituale, un re potente che avrebbe restaurato la sovranità d'Israele e sottomesso le nazioni pagane, non un falegname giustiziato come un criminale comune. L'idea di un Messia sofferente e crocifisso era uno scandalo, una contraddizione in termini, una follia per i Giudei. E la pretesa della Sua resurrezione, una pericolosa menzogna che rischiava di traviare gli ingenui e di minare le fondamenta stesse della fede tradizionale.
Il fuoco dello zelota che ardeva in lui divampò con furia. Vedeva in questi "Nazareni" – così li chiamava con disprezzo, dal nome del villaggio insignificante da cui proveniva il loro presunto maestro – una minaccia esistenziale. Le loro dottrine, a suo dire, erano un cancro che si diffondeva rapidamente, contaminando la purezza della fede mosaica. Parlavano di un nuovo patto, di salvezza attraverso la fede in questo Yeshua, di un accesso diretto a Dio che sembrava bypassare il Tempio e le elaborate osservanze rituali che lui e i suoi confratelli custodivano con tanta gelosia.
"Come osano?" sibilava Sha'ul durante le accese discussioni con altri farisei, la sua voce vibrante di indignazione. "Costoro sovvertono la Torah! Insegnano che quel... quell'impostore è uguale all'Eterno! Non è questa la più grande delle idolatrie, porre un uomo al fianco dell'Unico, Benedetto Egli Sia?"
Il suo studio dell'ebraico, la sua profonda conoscenza delle Scritture, invece di aprirgli la mente alla possibilità di un adempimento inatteso delle profezie, divennero armi affilate nella sua crociata contro i Nazareni. Ogni versetto, ogni parola, veniva da lui interpretata in modo da confermare le sue convinzioni e condannare quelle altrui. L'Alef (א), simbolo dell'Unicità e della sovranità assoluta di Dio, gli sembrava profanata dall'idea che un uomo potesse condividerne la natura.
Non era solo una questione intellettuale o teologica. Era viscerale. La passione di Sha'ul per la Legge si era tramutata in un fanatismo che non ammetteva dubbi né tolleranza. Vedeva il mondo in bianco e nero: da una parte i fedeli custodi della tradizione, dall'altra i corruttori, i traditori. E i Nazareni erano, ai suoi occhi, i peggiori tra questi.
Iniziò a partecipare attivamente agli sforzi per sopprimere questo nuovo movimento. Non si limitava più alle dispute verbali nelle sinagoghe. Il suo zelo lo spingeva all'azione diretta. Era presente, consenziente e custode dei mantelli di coloro che lapidarono Stefano, uno dei primi e più ardenti diaconi della comunità nazarena, un uomo la cui testimonianza piena di Spirito e la cui visione del Figlio dell'Uomo alla destra di Dio avevano sigillato la sua condanna agli occhi del Sinedrio. Sha'ul aveva ascoltato le accuse contro Stefano, aveva visto il suo volto trasfigurato, eppure il suo cuore era rimasto duro come pietra, convinto della giustezza di quell'esecuzione.
Quel giorno, vedendo il sangue di Stefano bagnare la polvere di Gerusalemme, Sha'ul non sentì rimorso, ma una sorta di cupa soddisfazione, la convinzione di aver partecipato a un atto necessario per la purificazione d'Israele. Il fuoco dello zelota lo consumava, accecandolo alla possibilità che potesse esserci un'altra interpretazione, un'altra verità, più grande e più misericordiosa di quella che stringeva nel pugno. Credeva di servire Dio, ma in realtà stava servendo la sua stessa rigida interpretazione della Sua volontà, una volontà che, presto, gli si sarebbe rivelata in un modo tanto sconvolgente da fargli crollare addosso l'intero edificio delle sue certezze. La strada per Damasco era ancora di là da venire, ma i semi della sua furia persecutoria erano stati gettati e stavano crescendo rigogliosi nel terreno fertile del suo zelo inflessibile.
Capitolo 4: Voci di Persecuzione
La morte di Stefano non fu un episodio isolato, ma la scintilla che accese un incendio. Una grande persecuzione si scatenò contro la chiesa di Gerusalemme, e Sha'ul divenne una delle sue figure di spicco, un flagello temuto e implacabile. Non era più solo un osservatore consenziente; era un agente attivo, un inquisitore spietato.
"Respirava minacce e strage contro i discepoli del Signore," avrebbero poi raccontato coloro che erano sfuggiti alla sua furia. E non era un'esagerazione. Il fuoco dello zelota che lo animava si era trasformato in una vera e propria ossessione. Ottenne lettere di autorizzazione dal Sommo Sacerdote e dal Sinedrio, documenti che gli conferivano il potere di entrare nelle case, di trascinare via uomini e donne sospettati di appartenere alla "Via" – così i Nazareni chiamavano il loro movimento – e di gettarli in prigione.
Le strade di Gerusalemme, un tempo familiari e rassicuranti per i seguaci di Yeshua, divennero luoghi di terrore. Il nome di Sha'ul di Tarso era sussurrato con paura. Si diceva che avesse occhi che penetravano l'anima, capaci di scovare il minimo segno di deviazione dalla più stretta ortodossia. La sua conoscenza delle Scritture, un tempo ammirata, ora veniva usata come un'arma per intrappolare e confondere. Poteva citare la Torah e i Profeti con una rapidità e una precisione sconcertanti, piegando ogni parola a sostegno della sua accusa.
"Confessate!" tuonava nelle sinagoghe, affrontando coloro che osavano ancora professare la loro fede in Yeshua. "Rinnegate questo impostore! Tornate alla Legge di Mosè, all'unica vera fede dei nostri padri! Come potete credere che l'Eterno, l'Unico, il Santo d'Israele, si sia abbassato a morire su una croce romana, il supplizio dei maledetti?"
Le sue parole, pronunciate in un ebraico forbito o in un aramaico tagliente, erano cariche di una convinzione che non ammetteva repliche. Per lui, i Nazareni non erano semplicemente persone in errore; erano traditori, apostati che meritavano la punizione più severa. Non vedeva le loro vite trasformate, la gioia e la pace che molti di loro irradiavano nonostante le prove. Vedeva solo la minaccia, l'eresia.
Eppure, in rari momenti, nel silenzio della notte, quando il clamore delle dispute si placava, un'ombra di inquietudine poteva attraversare la sua mente ferrea. Le testimonianze di quegli uomini e donne, la loro serenità di fronte alle minacce, la loro incrollabile certezza nella resurrezione del loro Maestro... a volte, un piccolo seme di dubbio, quasi impercettibile, tentava di germogliare. Ma Sha'ul lo sradicava con violenza, bollandolo come una tentazione del maligno, un tentativo di indebolire la sua santa risoluzione.
Ricordava le parole di Gamaliele, il suo saggio maestro, che una volta, parlando al Sinedrio proprio riguardo ai primi apostoli, aveva ammonito: "Se questo disegno o quest'opera è dagli uomini, sarà distrutta; ma se è da Dio, voi non potrete distruggerli, e vi troverete forse a combattere perfino contro Dio". Parole prudenti, che allora non avevano scalfito la sua giovane foga. Ora, immerso nella sua campagna persecutoria, le respingeva come un segno di debolezza, di compromesso. Dio non poteva essere dalla parte di chi profanava il Suo Nome e la Sua Legge.
Il suo zelo lo consumava, ma gli dava anche una strana, distorta energia. Si sentiva uno strumento nelle mani dell'Eterno, un difensore della fede. Ogni arresto, ogni prigioniero condotto davanti al tribunale, era una vittoria contro le forze dell'oscurità. Non si rendeva conto che, nel suo accecamento, stava combattendo proprio contro quella Luce che anelava a servire.
La persecuzione si estese oltre i confini di Gerusalemme. Molti discepoli, fuggendo dalla città, portarono il messaggio di Yeshua in Giudea, in Samaria, e ancora più lontano. Ma questo, invece di scoraggiare Sha'ul, accrebbe la sua determinazione. Se l'infezione si diffondeva, allora lui avrebbe dovuto inseguirla, ovunque si annidasse.
Fu così che il suo sguardo si posò su Damasco. Voci erano giunte che anche in quella grande città siriana, con la sua numerosa comunità ebraica, il "contagio" nazareno si stava propagando. Damasco divenne il suo prossimo obiettivo, la prossima tappa della sua crociata. Armato delle sue autorizzazioni, circondato da un manipolo di uomini fidati, partì, il cuore gonfio di una furia santa, ignaro che quel viaggio non lo avrebbe condotto al trionfo della sua causa, ma all'incontro più sconvolgente e trasformativo della sua vita.
Il conflitto interiore, se mai c'era stato, era sepolto sotto strati di certezza autoimposta, di orgoglio farisaico e di una lettura della realtà filtrata attraverso le lenti deformanti del suo zelo. Le voci dei perseguitati, le loro preghiere per i loro aguzzini, la loro inspiegabile pace, erano rumori di fondo che la sua mente si rifiutava di elaborare. Stava per scoprire, nel modo più traumatico possibile, che a volte le voci che si cerca di soffocare sono quelle che portano il messaggio più vero, e che la Voce più potente di tutte può parlare quando meno te lo aspetti, in una lingua che credevi di conoscere, ma il cui significato più profondo ti era sfuggito.
Parte Seconda: La Luce sulla Via di Damasco
Capitolo 5: Il Viaggio della Furia
Il sole sferzava la terra arida mentre la piccola carovana guidata da Sha'ul si snodava lungo la strada polverosa che da Gerusalemme conduceva a nord, verso Damasco. Erano giorni che marciavano, e la fatica cominciava a farsi sentire sui volti degli uomini e sul passo degli animali. Ma non su quello di Sha'ul. O, se anche lui sentiva il peso del viaggio, lo mascherava con una ferrea disciplina, la stessa che applicava a ogni aspetto della sua vita religiosa.
La sua mente era un turbine di pensieri, un misto di pianificazione meticolosa e di ardente aspettativa. Damasco. Una città antica, crocevia di carovane e culture, dove la comunità ebraica era numerosa e influente. Le notizie che gli erano giunte parlavano di un nucleo crescente di Nazareni che, alcuni sfuggiti alla persecuzione a Gerusalemme altri convertitisi sul posto, stavano diffondendo le loro dottrine nelle sinagoghe e nelle case. Questo non poteva essere tollerato. La "peste" – così la definiva tra sé e sé – andava contenuta, debellata, prima che infettasse l'intero corpo d'Israele sparso nella diaspora.
Aveva studiato la situazione, raccolto informazioni. Sapeva i nomi di alcuni dei più attivi tra i seguaci della setta chiamata “Via” a Damasco. Aveva già visualizzato la scena: il suo arrivo, la presentazione delle lettere del Sommo Sacerdote alle autorità della sinagoga, gli interrogatori, gli arresti. Non provava piacere nella sofferenza altrui – o almeno così si diceva – ma una profonda, incrollabile convinzione che ciò che faceva fosse necessario, giusto, un atto di amore verso Dio e verso il Suo popolo, per preservarlo dall'errore.
I suoi compagni di viaggio lo osservavano con un misto di ammirazione e timore. La sua energia sembrava inesauribile, la sua determinazione inflessibile. Pochi osavano contraddirlo o anche solo esprimere un parere divergente. Sha'ul era un leader nato, la sua autorità emanava naturalmente dalla sua erudizione, dalla sua passione e dalla sua assoluta certezza di essere nel giusto.
Mentre cavalcava, ripassava mentalmente i passi scritturali che, secondo la sua interpretazione, condannavano senza appello le pretese dei Nazareni. Il Deuteronomio era chiaro: "Se sorge in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio... e ti dica: 'Seguiamo altri dèi, che tu non hai conosciuto, e serviamoli', tu non darai ascolto alle parole di quel profeta o di quel sognatore... Quel profeta o quel sognatore sarà messo a morte, perché ha parlato di ribellione contro l'Eterno, il vostro Dio". E per Sha'ul, proclamare Yeshua come Dio, o uguale a Dio, era esattamente questo: seguire un altro dio, allontanarsi dall'unicità assoluta dell'Eterno.
Ogni tanto, il ricordo di Stefano gli attraversava la mente. Il volto di quell'uomo, trasfigurato mentre moriva sotto una pioggia di pietre, le sue ultime parole di perdono per i suoi assassini... Era una memoria scomoda, che Sha'ul cercava di scacciare rapidamente. La legge era chiara: un blasfemo doveva morire. Stefano aveva bestemmiato, quindi la sua morte era giusta. Non c'era spazio per il sentimentalismo.
La polvere si alzava ad ogni passo, irritando gli occhi e la gola. Il paesaggio diventava sempre più brullo, le colline ondulate si perdevano all'orizzonte sotto un cielo di un azzurro spietato. Sha'ul si strinse nel suo mantello, nonostante il caldo. Il suo fuoco interiore era alimentato non solo dallo zelo religioso, ma anche da una sorta di rabbia, una rabbia contro coloro che, a suo dire, stavano distruggendo tutto ciò che egli amava e rispettava.
Non sapeva, mentre il suo cavallo lo portava inesorabilmente verso la sua meta, che non stava andando a caccia, ma stava per essere cacciato. Non da uomini, ma da qualcosa di infinitamente più grande, una Forza che avrebbe rovesciato il suo mondo, ridefinito la sua missione e impresso un nuovo Nome sulla sua anima.
La città di Damasco, con le sue antiche mura e i suoi giardini rigogliosi, non era più molto distante. Forse un altro giorno di viaggio, o poco più. Sha'ul sentì una stretta al cuore, un misto di eccitazione e di cupa determinazione. Il suo compito era quasi giunto al culmine. Ancora poche ore, e avrebbe iniziato la sua opera di "pulizia" spirituale.
Il sole era quasi allo zenit, picchiando con tutta la sua forza. L'aria era immobile, pesante. Un silenzio quasi innaturale sembrava essere calato sulla campagna circostante. Sha'ul alzò lo sguardo al cielo, quasi a sfidarlo. Era pronto. La sua furia lo spingeva avanti, ignaro della Luce che stava per travolgerlo e accecarlo, per poi aprirgli occhi completamente nuovi.
Capitolo 6: "Sha'ul, Sha'ul!" – L'Incontro
Il mezzogiorno era trascorso da poco. Il sole, implacabile, dardeggiava i suoi raggi verticali, trasformando la strada in un nastro di polvere infuocata. L'aria vibrava per la calura, e persino i grilli sembravano aver placato il loro canto. I compagni di Sha'ul procedevano a capo chino, la stanchezza e l'afa che li opprimevano. Lui solo, Sha'ul, sembrava immune, il volto teso in una maschera di concentrazione, gli occhi fissi sulla linea dell'orizzonte dove, presto, sarebbero apparse le mura di Damasco.
Fu in quel momento, in quell'ora di luce quasi irreale, che il cielo stesso sembrò squarciarsi.
Non un tuono, non un lampo come quelli che annunciano un temporale. Fu una luce diversa, di un'intensità che nessuna parola umana poteva descrivere. Più brillante del sole di mezzogiorno, più pura di qualsiasi fuoco terreno, una gloria accecante che esplose dal nulla, avvolgendo Sha'ul e i suoi compagni in un abbraccio terrificante e maestoso.
Un grido collettivo di terrore si levò dagli uomini, che si coprirono istintivamente gli occhi, cercando riparo da quella manifestazione soprannaturale. I cavalli nitrirono selvaggiamente, impennandosi, alcuni disarcionando i loro cavalieri. La carovana piombò nel caos.
Sha'ul fu sbalzato dalla sua cavalcatura come da una forza invisibile e potentissima. L'impatto con il terreno duro e polveroso gli mozzò il respiro. Sentì un dolore lancinante alla spalla, ma fu la luce a dominarlo, a penetrarlo fin nelle ossa. Non era una luce che illuminava; era una luce che consumava, che annullava ogni altra percezione. Prima che il buio calasse sui suoi occhi, ebbe la fugace, terrificante sensazione di essere al cospetto di qualcosa di infinitamente santo, di una potenza che trascendeva ogni sua comprensione.
Poi, il nulla. Una cecità totale, un abisso nero e profondo, lo inghiottì. Era a terra, stordito, il corpo dolorante, ma era la perdita improvvisa della vista a gettarlo nel panico più assoluto. Il mondo esterno era svanito, sostituito da un vuoto opprimente.
Sentiva le voci confuse e spaventate dei suoi compagni, ma sembravano distanti, ovattate, come se provenissero da un altro mondo. "Cosa è stato?" "Una luce... dal cielo!" "Siamo stati colpiti!" Ma lui, Sha'ul, era isolato nel suo bozzolo di oscurità e terrore.
Fu allora, nel cuore di quel buio e di quel silenzio interiore carico di sgomento, che la udì.
La Voce.
Non era una delle voci dei suoi compagni. Era diversa. Risuonava non tanto nelle sue orecchie, quanto direttamente nella sua anima, nel profondo del suo essere. E parlava in una lingua che conosceva intimamente, una lingua che gli era sacra.
L'Ebraico.
Non l'aramaico colloquiale, né il greco delle dispute filosofiche o il latino del potere imperiale. Era l'ebraico della Torah, dei Profeti, dei Salmi. L'ebraico con cui aveva discusso e sentenziato, la lingua in cui si sentiva più vicino all'Eterno. Ma questa volta, non era lui a parlare o a interpretare. Era lui ad ascoltare, annichilito.
"Sha’ul, Sha’ul..."
Il suo nome. Il suo nome ebraico, pronunciato due volte, con un'intonazione che non era di condanna furiosa, come forse si sarebbe aspettato da un Dio offeso, ma intrisa di un dolore profondo, quasi un lamento. C'era un'urgenza, una tristezza in quel richiamo che lo scosse fin nelle viscere. Il suono della sua stessa identità, ora usato per interpellarlo da una fonte invisibile e onnipotente.
Tentò di muoversi, di alzarsi, ma il suo corpo non rispondeva, paralizzato dallo shock e da una forza che lo inchiodava al suolo. Poteva solo ascoltare, il cuore che batteva all'impazzata nel petto, un tamburo selvaggio nel silenzio.
La Voce continuò, e ogni parola era come un sigillo impresso a fuoco nella sua coscienza:
"...lamah tird'feni? Qasheh lekha liv'ot ba'darbanot."
"Perché mi perseguiti?" Una domanda diretta, inequivocabile. E poi quella metafora, così radicata nella vita agricola della sua terra: "Ti è duro recalcitrare contro i pungoli." L'immagine di un animale da tiro che, ostinandosi a resistere alla guida del pungolo, non fa che ferirsi più profondamente.
Sha'ul, il grande studioso, l'esperto della Legge, il persecutore convinto della propria giustizia, si sentì improvvisamente piccolo, nudo, esposto. Mi perseguiti? Chi era questo "Mi"? Contro chi stava realmente combattendo, convinto di servire Dio? Il pungolo... stava forse resistendo a una guida divina che non aveva riconosciuto?
La logica ferrea che aveva governato la sua vita si stava sgretolando. Le sue certezze, costruite con tanta cura e difese con tanta veemenza, crollavano come un castello di sabbia sotto l'impeto di un'onda anomala.
Era caduto a terra, lui e i suoi compagni, come testimoniò in seguito. E ora, in quella prostrazione forzata, nel buio della sua cecità fisica ma con la mente dolorosamente lucida, sentiva quella Voce che lo interrogava, che lo metteva a nudo, che gli rivelava la sua ostinazione come una lotta vana e autolesionista.
Il viaggio verso Damasco aveva subìto una deviazione imprevista, terribile e meravigliosa. La furia che lo animava si era scontrata con una Potenza che non poteva né comprendere né contrastare. E la lingua dei suoi padri, la lingua della sua più profonda devozione, veniva ora usata per smascherare il suo più grande errore.
Capitolo 7: "Ani Yeshua" – Il Nome Svelato
Il silenzio che seguì la domanda della Voce fu denso, quasi palpabile. Sha'ul giaceva nella polvere, il respiro affannoso, il cuore un tumulto di terrore e confusione. La domanda echeggiava nella sua mente: "Lamah tird'feni? Qasheh lekha liv'ot ba'darbanot." Perché mi perseguiti? Ti è duro recalcitrare contro i pungoli.
Le implicazioni erano sconvolgenti. Se stava "recalcitrando contro i pungoli", significava che la sua zelante campagna non era gradita a Dio, ma era una resistenza alla Sua volontà. E quel "Mi"... chi era l'entità divina che lui, Sha'ul, stava inconsapevolmente perseguitando, credendo di servire l'Eterno?
Un milione di pensieri gli turbinavano nella mente accecata. Poteva essere un angelo? Un inviato celeste? Ma la maestà, l'autorità che promanava da quella Voce, sembrava trascendere persino la più alta gerarchia angelica. E perché parlargli in ebraico, la Lingua Sacra, se non per sottolineare la gravità e la santità del momento?
Con uno sforzo immane, raccolse quel poco di coraggio che gli era rimasto, un coraggio nato più dalla disperazione che dalla forza. La sua erudizione, la sua retorica, tutto ciò su cui aveva sempre contato, erano inutili ora. Poteva solo porre la domanda più elementare, la più cruciale. La formulò con un sussurro spezzato che a malapena uscì dalle sue labbra tremanti:
"Mi attah, Adonì? Chi sei, Signore mio?”
L'appellativo "Adonì", Signore mio, era un riconoscimento istintivo della sovranità schiacciante di Colui che gli parlava. Non c'era più traccia dell'arrogante certezza di Sha'ul il fariseo; solo la domanda nuda di un uomo annientato, alla disperata ricerca di comprensione.
L'attesa della risposta fu un'agonia. Ogni secondo si dilatava in un'eternità. Poteva sentire i suoi compagni muoversi intorno a lui, le loro voci ancora spaventate ma ora più sommesse, forse rendendosi conto che stava accadendo qualcosa di specificamente rivolto a lui. Li aveva uditi cadere a terra, ma la Voce, almeno quella con le parole, era stata solo per le sue orecchie, o meglio, per la sua anima.
Poi, la Voce rispose. Ancora in quell'ebraico limpido, penetrante, solenne. Ogni sillaba risuonò con una chiarezza cristallina nel buio della sua mente, imprimendosi a fuoco nella sua memoria per sempre.
"Ani Yeshua asher attah rodeph."
"Io sono Yeshua che tu stai perseguitando."
Yeshua.
Il Nome. Quel Nome. Il nome del falegname di Nazareth. Il nome dell'uomo che lui aveva bollato come impostore, come bestemmiatore. Il nome di colui i cui seguaci aveva braccato, imprigionato, persino condotto alla morte. Quel Nome, ora pronunciato da una Voce celeste, con un'autorità divina.
Un'ondata di gelo percorse Sha'ul, seguita da un calore bruciante di vergogna e orrore. Tutto ciò in cui aveva creduto, tutto ciò per cui aveva combattuto, si stava capovolgendo con una violenza inaudita. L'uomo che considerava un nemico di Dio, un sobillatore del popolo, era Colui che gli parlava dal cielo, avvolto in una luce inaccessibile, e che si identificava con il Nome stesso dell'Eterno, "Ani" – "Io Sono" – seguito dal Suo nome personale, Yeshua.
Yeshua! Non "Iesus" come lo avrebbero poi traslitterato i Greci e i Latini, non "Gesù" come sarebbe risuonato in altre lingue. Ma Yeshua. Il nome ebraico originale, che significa "L'Eterno salva" e "Salvezza dell'Eterno". Un nome comune, sì, ma ora investito di un significato trascendente, rivelato come il “Nome al di sopra di ogni altro nome".
Il suo cervello, allenato a cogliere le più sottili sfumature della lingua ebraica, registrò tutto con una lucidità terrificante. La Voce non aveva detto "Io sono il Messia", o "Io sono il Figlio di Dio", sebbene quelle verità fossero implicite nella rivelazione. Aveva detto, semplicemente e direttamente, "Io sono Yeshua". Il Nome proprio, usato da Lui stesso, molti anni dopo la Sua resurrezione e ascensione, in un contesto di pura rivelazione divina, parlando la Lingua Sacra dell'Eterno.
Le implicazioni erano devastanti. Se Yeshua era Colui che parlava dal cielo con tale potere e autorità, allora i suoi seguaci non erano eretici, ma testimoni della verità. Se Yeshua era divino, allora la sua crocifissione non era la fine vergognosa di un impostore, ma un evento di significato cosmico. E lui, Sha'ul di Tarso, il custode zelante della Legge, si era macchiato del crimine più orrendo: aveva perseguitato Dio stesso, incarnato in Yeshua.
Le parole di Gamaliele gli tornarono in mente, non più come un consiglio prudente da ignorare, ma come una profezia terribile che si era avverata: "...vi troverete forse a combattere perfino contro Dio". Aveva combattuto contro Dio. Aveva recalcitrato contro i pungoli divini.
Un gemito sfuggì dalle sue labbra. Il peso della sua colpa lo schiacciò più della caduta fisica. La cecità esteriore era nulla in confronto alla cecità interiore che lo aveva guidato fino a quel momento. Aveva creduto di vedere, ed era cieco. Ora, nel buio fisico, cominciava a vedere una verità che lo accecava con la sua intensità.
"Ani Yeshua..." Quelle parole non erano solo un'identificazione. Erano un giudizio, una rivelazione, e forse, in qualche modo che ancora non riusciva a comprendere, un invito. Il Nome che era stato oggetto della sua ira era ora la chiave della sua possibile, benché terrificante, trasformazione. La sua vita, fino a quel preciso istante, era stata una menzogna basata su una comprensione distorta. Ora, sulla polvere della via di Damasco, sotto il peso di una Voce e di un Nome svelato, cominciava, dolorosamente, a morire per rinascere.
Capitolo 8: Il Silenzio e la Nuova Visione
Il suono della Voce svanì, lasciando dietro di sé un silenzio carico di contenuto, un vuoto che era più eloquente di qualsiasi parola. Sha'ul rimase immobile sulla terra riarsa, il corpo ancora scosso da tremiti incontrollabili, la mente un vortice di pensieri sconvolgenti. La rivelazione – "Ani Yeshua asher attah rodeph" – continuava a risuonare dentro di lui, ogni sillaba incisa a fuoco nella sua anima.
I suoi compagni, dopo l'iniziale terrore, si erano riavvicinati con cautela. Li sentiva muoversi, le loro voci sommesse e ansiose. "Sha'ul? Stai bene?" "Maestro, cosa ti è successo?" "Hai visto anche tu la luce? Hai sentito qualcosa?"
Con un enorme sforzo, Sha'ul si sollevò sui gomiti, poi, con mani incerte, si mise a sedere. La testa gli girava, e il buio che avvolgeva i suoi occhi era totale, impenetrabile. "Non vedo," mormorò, la voce roca, quasi irriconoscibile. "Non vedo nulla."
Ci fu un momento di sbigottimento tra i suoi uomini. Loro avevano visto la luce accecante, erano caduti a terra spaventati, ma avevano riacquistato la vista. Solo il loro capo, il fiero e inflessibile Sha'ul, era rimasto cieco.
Lo aiutarono a rimettersi in piedi. Le gambe gli tremavano, e dovette appoggiarsi pesantemente a due di loro per non cadere. Il mondo, prima così chiaro e definito nelle sue categorie di giusto e sbagliato, amico e nemico, era ora un abisso oscuro e incerto. La sua sicurezza, la sua arroganza, erano state polverizzate insieme alla sua vista.
"Portatemi a Damasco," riuscì a dire, la voce ancora un filo. Non c'era più traccia della sua furia persecutoria, solo uno smarrimento profondo, una vulnerabilità che non aveva mai conosciuto. Il viaggio, iniziato con tanta determinazione e con uno scopo così chiaro, era ora avvolto nel mistero e nell'incertezza. Le lettere di autorizzazione del Sommo Sacerdote, che teneva ancora nella sua borsa, gli sembravano ora spazzatura, testimonianza della sua terribile cecità spirituale.
I suoi uomini, confusi e scossi, obbedirono. Lo condussero per mano, come un bambino, lungo il resto del cammino verso Damasco. Che strano spettacolo doveva essere: il temuto inquisitore, l'uomo che veniva per arrestare e imprigionare, ora condotto per mano, cieco e impotente, nella città che avrebbe dovuto "purificare".
Una volta giunti a Damasco, lo accompagnarono in una casa presso una via chiamata Diritta, da conoscenti della comunità ebraica che si aspettavano un ospite ben diverso. Lì, Sha'ul si ritirò in sé stesso. Per tre giorni e tre notti rimase in quella stanza, avvolto nelle tenebre della sua cecità fisica e nel tumulto della sua anima.
In quei tre giorni, non mangiò né bevve. Il suo corpo, provato dal viaggio e dallo shock, era debole, ma la sua mente era incredibilmente attiva. Il silenzio e l'oscurità divennero il suo crogiolo. Senza la distrazione del mondo esterno, senza la possibilità di leggere o discutere, fu costretto a confrontarsi con sé stesso, con la sua vita passata, e con la terrificante rivelazione sulla via.
"Ani Yeshua." Quelle parole gli tornavano incessantemente alla mente. Yeshua. L'uomo che aveva disprezzato, che aveva considerato un bestemmiatore, era il Signore dal cielo. Aveva perseguitato i Suoi seguaci, aveva approvato la morte di Stefano... Il peso della sua colpa era schiacciante. Come aveva potuto essere così cieco? Lui, il fariseo istruito, l'esperto della Legge, come aveva potuto fraintendere così clamorosamente le Scritture, il cuore stesso della sua fede?
Le parole della Torah, dei Profeti, che prima usava come armi contro i Nazareni, ora gli si ripresentavano sotto una luce completamente nuova. Il Servo Sofferente di Isaia, il Messia trafitto di Zaccaria... Frammenti di profezie che aveva sempre interpretato in modo diverso, o che aveva ignorato, ora cominciavano a comporsi in un mosaico sconvolgente e meraviglioso, che puntava inesorabilmente verso Yeshua di Nazareth.
La sua conoscenza dell'ebraico, così profonda, ora diventava uno strumento di autoanalisi e di nuova comprensione. Ogni parola della rivelazione – Ani, Yeshua, rodeph (Io, Yeshua, perseguitare) – assumeva un peso specifico. Comprendeva la gravità di aver attaccato Colui il cui Nome stesso significava "Salvezza dell'Eterno".
In quei tre giorni di buio e digiuno, Sha'ul morì. Morì il fariseo arrogante, il persecutore zelante, l'uomo convinto della propria giustizia. E nel vuoto lasciato da quella morte, qualcosa di nuovo cominciava a germogliare, fragile ma tenace. Una nuova visione, non degli occhi, ma del cuore e della mente.
Nel frattempo, a Damasco, un discepolo di nome Anania, un uomo timorato di Dio e rispettato da tutta la comunità ebraica, ricevette una visione. Il Signore gli parlò, istruendolo ad andare in via Diritta, a cercare un uomo di Tarso di nome Sha'ul, che in quel momento stava pregando e che, in una visione, aveva visto un uomo di nome Anania entrare e imporgli le mani per riacquistare la vista.
Anania era terrorizzato. Il nome di Sha'ul era sinonimo di persecuzione e morte per i credenti. "Signore," obiettò, "ho sentito da molti riguardo a quest'uomo, quanto male ha fatto ai tuoi santi in Gerusalemme. E qui ha autorità dai capi dei sacerdoti per imprigionare tutti quelli che invocano il tuo nome."
Ma il Signore lo rassicurò: "Va', perché egli è uno strumento che io ho scelto per portare il mio nome davanti ai popoli, ai re e ai figli d'Israele. E io gli mostrerò quante cose dovrà soffrire per il mio Nome."
Con trepidazione, ma obbediente alla voce divina, Anania si recò alla casa indicata. Trovò Sha'ul, ancora cieco, seduto in preghiera, il volto segnato dal digiuno e dal tormento interiore.
Anania gli si avvicinò e, con una dolcezza che contrastava nettamente con la fama del suo interlocutore, gli pose le mani sul capo. "Fratello Sha'ul," disse, e quella parola, "fratello", risuonò potente alle orecchie dell'ex persecutore. "Il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, mi ha mandato perché tu ricuperi la vista e sia riempito dello Spirito Santo."
Nell'istante in cui Anania pronunciò quelle parole, qualcosa come delle scaglie cadde dagli occhi di Sha'ul. La luce del giorno, prima negata, irruppe nuovamente nel suo mondo, dapprima fioca, poi sempre più chiara. Ma non era solo la vista fisica a essergli restituita. Era una nuova visione, una comprensione illuminata dallo Spirito di Dio.
Si alzò, fu battezzato, e dopo aver mangiato, riprese le forze. Ma non era più lo stesso Sha'ul. L'incontro sulla via di Damasco, la Voce, il Nome svelato, i tre giorni di silenzio e oscurità, e l'intervento di Anania avevano operato una trasformazione radicale. Il fuoco dello zelota non si era spento, ma era stato reindirizzato, purificato. La sua vita aveva ora un nuovo centro, un nuovo Signore: Yeshua HaMashiach, Gesù il Messia. E le lingue che conosceva, la sua erudizione, la sua passione, sarebbero ora state messe al servizio di Colui che un tempo aveva perseguitato. La sua missione era appena iniziata.
Parte Terza: Paolo, Apostolo delle Genti e Custode delle Radici
Capitolo 9: Le Lingue come Ponti
La trasformazione di Sha'ul – che sempre più spesso, soprattutto tra i credenti di lingua greca, cominciava a essere conosciuto con il suo nome romano, Paulus – non fu solo interiore. Presto, l'ardore che prima aveva impiegato nel perseguitare la Via, lo riversò con altrettanta, se non maggiore, veemenza nel proclamare che Yeshua era il Figlio di Dio, il Messia promesso a Israele.
Subito dopo il suo battesimo e il recupero della vista a Damasco, iniziò a predicare nelle sinagoghe della città, lasciando stupefatti coloro che lo conoscevano come il feroce avversario dei Nazareni. "Non è costui quello che a Gerusalemme perseguitava coloro che invocavano questo Nome," si chiedevano gli ebrei di Damasco, "ed è venuto qua precisamente per condurli legati ai capi dei sacerdoti?" Ma Paolo li confondeva, dimostrando con le Scritture che Yeshua era il Cristo.
La sua padronanza delle lingue divenne subito uno strumento cruciale. Nelle sinagoghe, argomentava in un ebraico e aramaico impeccabili, citando la Torah e i Profeti con la stessa erudizione di prima, ma ora con una luce nuova che illuminava i testi. Dimostrava come le antiche promesse si fossero adempiute in Yeshua, come il Messia dovesse soffrire, morire e risorgere, concetti che prima gli erano stati ostici.
Ma la sua chiamata, come gli era stato rivelato tramite Anania, non si limitava ai figli d'Israele. Doveva portare il Nome di Yeshua "davanti ai popoli", alle genti, ai pagani. E qui, il suo greco koinè, affinato negli anni trascorsi a Tarso, divenne un ponte essenziale.
Dopo un lungo periodo di ritiro in Arabia – un tempo di profonda riflessione, studio e ulteriore preparazione da parte del Signore stesso – e un breve ritorno a Damasco da cui dovette fuggire calato in una cesta dalle mura per scampare a un complotto, Paolo si recò a Gerusalemme. Lì incontrò Kefa (Pietro) e Giacomo, il “fratello del Signore”, figure centrali della chiesa madre. L'incontro fu inizialmente teso, data la sua fama precedente, ma Barnaba, un uomo buono e pieno di Spirito Santo, lo prese sotto la sua ala, garantendo per lui e raccontando della sua conversione e del suo coraggio nel predicare a Damasco.
Anche a Gerusalemme, Paolo predicò con ardore, ma il suo approccio diretto e la sua precedente reputazione crearono ostilità. Presto, i fratelli lo mandarono a Tarso, la sua città natale, per la sua sicurezza. Lì, per alcuni anni, il fuoco della sua nuova fede continuò a bruciare, in un ministero più locale, affinando ulteriormente la sua comprensione del Vangelo.
Fu Barnaba a cercarlo di nuovo, quando la chiesa di Antiochia di Siria, una grande e cosmopolita città a maggioranza gentile, cominciò a crescere rapidamente. C'era bisogno di insegnanti solidi, e Barnaba pensò a Paolo. Ad Antiochia, la sua capacità di comunicare in greco divenne fondamentale. La città era un crogiolo di culture, e il messaggio di un Messia ebreo doveva essere presentato in modo comprensibile a menti formate dalla filosofia greca e dalle religioni misteriche.
Paolo scoprì presto che non si trattava solo di tradurre parole, ma concetti. La concretezza della mentalità ebraica, così intrinseca al messaggio del Vangelo, spesso si scontrava con la tendenza greca all'astrazione. Come spiegare la "giustizia di Dio" (צדקה - tzedaqah), che in ebraico implicava un'azione salvifica e un ripristino dell'ordine, a chi la intendeva primariamente come una virtù filosofica? Come trasmettere il concetto di "fede" (אמונה - emunah), che per un ebreo era lealtà, fedeltà e fiducia operosa, a chi poteva interpretarla come una mera credenza intellettuale?
Il suo latino, sebbene meno usato nella predicazione quotidiana ad Antiochia, gli era utile quando interagiva con ufficiali romani o cittadini influenti. La sua cittadinanza romana gli apriva porte e gli offriva una certa protezione legale, cosa che si sarebbe rivelata preziosa nei suoi futuri viaggi missionari.
Le lingue erano ponti, ma anche potenziali fonti di fraintendimento. Paolo lottava costantemente per trovare le parole giuste, le analogie più efficaci, per trasmettere la profondità della rivelazione che aveva ricevuto, una rivelazione radicata nel terreno ebraico ma destinata a tutte le nazioni. Si rendeva conto che il "mistero" di Cristo, nascosto per secoli e ora svelato, richiedeva una nuova "traduzione" culturale, senza però annacquare o distorcere il suo nucleo essenziale.
Spesso, nelle sue lettere successive, si noterà questo sforzo: prenderà concetti greci familiari ai suoi lettori e li riempirà di un nuovo significato, un significato cristocentrico radicato nell'Antico Patto. Userà la logica e la retorica greca, ma il contenuto, il cuore del suo messaggio, rimarrà profondamente ebraico.
I primi viaggi missionari, intrapresi con Barnaba e poi con altri compagni come Sila e Timoteo, lo portarono attraverso Cipro, l'Asia Minore, la Macedonia e la Grecia. In ogni città, la sua strategia era simile: prima si recava alla sinagoga, dove poteva parlare agli ebrei e ai "timorati di Dio" (gentili simpatizzanti del giudaismo) nella loro lingua e contesto culturale. Poi, spesso dopo essere stato respinto o cacciato dalla sinagoga, si rivolgeva direttamente ai pagani, parlando loro in greco nelle piazze, nelle case, ovunque ci fosse un orecchio disposto ad ascoltare.
Ogni lingua che conosceva era una chiave, un passpartout per cuori e menti diverse. Ma la sfida più grande rimaneva quella di comunicare non solo parole, ma un intero universo di significato, quello scaturito dall'incontro con Yeshua sulla via di Damasco, un incontro avvenuto nella sacra lingua dell'Eterno, e che ora doveva risuonare in tutte le lingue del mondo conosciuto. La sua vita era diventata un continuo atto di traduzione, non solo linguistica, ma esistenziale.
Capitolo 10: La Comunità di Antiochia: Un Crogiolo di Culture
Antiochia di Siria. La terza città dell'Impero Romano, dopo Roma e Alessandria. Un formicaio brulicante di vita, un porto fluviale sull'Oronte dove si incrociavano mercanti da ogni angolo del mondo conosciuto. Greci, Romani, Siriaci, Arabi, Egiziani, e una consistente e vivace comunità ebraica. Qui, più che a Gerusalemme, il messaggio di Yeshua iniziò a mostrare la sua vocazione universale. Fu ad Antiochia, infatti, che per la prima volta i seguaci di Cristo vennero chiamati “Meshichiyim”, messianici o cristiani.
Quando Barnaba condusse Paolo ad Antiochia, la chiesa locale era già in piena espansione, composta sia da Giudei che, in misura crescente, da Gentili convertiti. Era un laboratorio vivente di come la fede in un Messia ebreo potesse mettere radici in un terreno culturale profondamente ellenistico. Per Paolo, questo ambiente rappresentava sia una straordinaria opportunità che una sfida costante.
Insegnava con passione e profondità, attingendo alla sua vasta conoscenza delle Scritture, ma sforzandosi di renderle accessibili a un uditorio eterogeneo. Molti dei Gentili convertiti provenivano da contesti politeistici, imbevuti di filosofia greca, culti misterici e una visione del mondo radicalmente diversa da quella monoteistica e pattizia del giudaismo.
"Fratelli," iniziava spesso Paolo, la sua voce chiara e ferma che risuonava nella grande sala dove la comunità si riuniva, o in una casa più modesta, a seconda delle circostanze. Nel rivolgersi così, anche quando usava il termine greco Adelphoi (Fratelli), il suo cuore e la sua mente erano radicati nell'uso ebraico della parola אחים (Achim), 'fratelli', termine che per tradizione biblica abbracciava amorevolmente l'intera comunità del patto, uomini e donne senza alcuna distinzione di sesso, figli dell'unico Padre Celeste. Anche il Vangelo, come la Legge di Mosè, era rivolta a “tutti” proprio come la parola “Achim” (fratelli) significava nella lingua del Creatore. "L'Eterno, l'Iddio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, non è un Dio lontano e disinteressato, come alcuni dei vostri filosofi potrebbero immaginare, né uno dei tanti dèi che popolano i vostri pantheon. Egli è l'Unico, il Creatore di tutte le cose, Colui che ha parlato attraverso i profeti e che, nei tempi stabiliti, ha adempiuto le Sue promesse."
Doveva smontare preconcetti, costruire ponti concettuali. Quando parlava del "peccato", doveva andare oltre l'idea greca di hamartia come semplice "mancare il bersaglio" o errore, per trasmettere la gravità della ribellione contro un Dio santo, come inteso nel contesto ebraico di chet o avon. Quando parlava di "salvezza" (soteria in greco), doveva spiegarla non solo come liberazione da un destino avverso, ma come la yeshu'ah ebraica: un intervento potente e liberatorio di Dio nella storia, che culminava nell'opera di Yeshua.
Le differenze di mentalità erano palpabili. Per i Greci, la verità era spesso qualcosa da scoprire attraverso la ragione e la speculazione. Per Paolo, radicato nel pensiero ebraico, la verità è rivelata, storica, incarnata. "Quello che vi annuncio," diceva, "non sono favole abilmente inventate, né sottili argomentazioni filosofiche. Vi annuncio fatti: che Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture ebraiche; che fu sepolto; che risuscitò il terzo giorno, secondo le Scritture ebraiche; e che apparve a Kefa, poi ai Dodici, poi a più di cinquecento fratelli in una volta... e infine a me." La concretezza ebraica emergeva sempre: eventi, testimoni, adempimenti.
A volte, durante le sessioni di insegnamento, sorgevano dibattiti accesi. Un Greco colto, abituato ai dialoghi socratici, lo interrompeva: "Maestro Paolo, come può un essere divino soffrire e morire? Non è una contraddizione con la natura stessa dell'immortalità divina?"
Paolo, con pazienza ma con fermezza, rispondeva, attingendo alla sua conoscenza delle profezie, come quella del Servo Sofferente in Isaia, un testo che per molti ebrei era enigmatico ma che ora, alla luce di Cristo, risplendeva di un significato devastante. "La sapienza di questo mondo è follia davanti a Dio," replicava, citando quasi alla lettera ciò che avrebbe poi scritto ai Corinzi. "Poiché è piaciuto a Dio, nella sua sapienza, di salvare i credenti mediante la follia della predicazione. I Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza; ma noi predichiamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e follia per i Gentili; ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio."
La comunità di Antiochia divenne un luogo di profonda comunione ma anche di necessarie chiarificazioni. Il concetto stesso di "chiesa" (ekklesia), che per i Greci indicava un'assemblea cittadina autoconvocata, veniva riempito del significato ebraico di qahal, l'assemblea del popolo convocata da Dio stesso, ora allargata per includere le genti.
Paolo vedeva con chiarezza i pericoli. Da un lato, il rischio che i credenti giudei volessero imporre l'intera osservanza della legge mosaica, come veniva interpretata dai farisei, ai convertiti gentili, trasformando la libertà in Cristo in un nuovo legalismo. Dall'altro, il rischio che i credenti gentili, fraintendendo la libertà cristiana, cadessero nel lassismo morale o sincretizzassero la fede con pratiche pagane.
In questo crogiolo, la sua capacità di pensare in ebraico, pur comunicando in greco, era una risorsa inestimabile. Poteva spiegare le radici ebraiche della fede, il significato profondo dei termini dell'Antico Patto, mostrando come Yeshua fosse il compimento e non la negazione di quelle promesse. Poteva insistere sull'importanza dell'unità tra Giudei e Gentili in Cristo, un unico nuovo corpo, abbattendo il muro di separazione.
Antiochia fu la sua base operativa per molti anni, il trampolino di lancio per i suoi viaggi missionari. Lì imparò ad affinare il suo messaggio, a confrontarsi con mentalità diverse, a difendere la purezza del Vangelo dalle distorsioni. La chiesa di Antiochia, con la sua vibrante mescolanza di culture, divenne un modello di ciò che Dio stava facendo nel mondo: creare un popolo nuovo, tratto da ogni nazione, lingua e tribù, unito nel nome di Yeshua. E Paolo, il cittadino romano di Tarso, il fariseo formato a Gerusalemme, l'apostolo chiamato sulla via di Damasco, era al centro di questo straordinario, e a volte tumultuoso, processo.
Capitolo 11: La Lettera א (Alef) e la Casa ב (Bet): L'Essenza di ‘Abb
Durante uno dei suoi periodi di insegnamento ad Antiochia, una coppia di credenti, Demetrio e Lidia, si avvicinò a Paolo con un fardello visibile nei loro occhi. Demetrio era un artigiano greco, un uomo pratico e devoto da quando aveva udito il messaggio di Cristo. Lidia, sua moglie, proveniva da una famiglia ebraica della diaspora, e pur avendo abbracciato Yeshua come Messia, portava ancora con sé la profonda riverenza per le tradizioni dei padri. Erano sposati da diversi anni, ma recentemente una tensione sottile, un non detto carico di aspettative deluse, si era insinuata tra loro.
"Maestro Paolo," iniziò Demetrio, la sua voce solitamente sicura ora incerta, "c'è qualcosa che non comprendiamo appieno, riguardo al... al ruolo, alla natura di Dio come Padre, e forse, di riflesso, al mio ruolo in casa."
Lidia annuì, gli occhi bassi. "Veniamo da mondi diversi, io e Demetrio. A volte, le parole che usiamo per Dio, per la famiglia, sembrano avere significati diversi per noi."
Paolo li ascoltò con attenzione, il suo sguardo penetrante ma compassionevole. Intuiva che dietro la loro domanda si celava un disagio più profondo, legato alle dinamiche della loro vita coniugale e familiare. Antiochia, con il suo miscuglio di culture, spesso portava a galla queste discrepanze di comprensione.
"Sedetevi, fratelli miei," disse Paolo, indicando delle semplici stuoie. "Parliamo. A volte, per comprendere la profondità di una verità divina, dobbiamo tornare alle radici, alla lingua in cui Egli per primo si è rivelato."
Paolo sapeva che per Demetrio, cresciuto con il pantheon greco, l'idea di un "padre degli dèi" come Zeus evocava immagini di potere capriccioso, di infedeltà e di una paternità distante, spesso autoritaria ma raramente intima. Per Lidia, l'idea di Dio come Padre era più familiare, ma forse ancora legata a un'immagine di severità legislativa.
"Nella lingua dei nostri padri, l'ebraico," iniziò Paolo, la sua voce che assumeva un tono più riflessivo, "la parola per 'padre' è אב (‘Abb). Una parola breve, solo due lettere, ma immensamente ricca."
Prese un pezzetto di carbone e su un coccio di terracotta, tracciò le due lettere ebraiche: א e ב.
"Guardate la prima lettera," disse, indicando la א (Alef). "Questa è la Alef. È la prima lettera dell'alfabeto ebraico, l'inizio di tutto. Simbolicamente, deriva dall'immagine della testa di un toro: forza, potere, guida, leadership, responsabilità. Ha valore numerico uno, a significare l'Unicità dell'Eterno. L'Alef, in sé, rappresenta Dio nella Sua sovranità e potenza."
Demetrio e Lidia osservavano, affascinati. Paolo non stava facendo una lezione di grammatica, ma svelando strati di significato.
"Ora guardate la seconda lettera," continuò, indicando la ב (Bet). "Questa è la Bet. Deriva dal pittogramma di una casa, o di una tenda con un'apertura. Rappresenta la casa, l'interno, l'intimità, il luogo della famiglia. Ha valore numerico due."
Poi unì le due lettere sul coccio: אב.
"Quando uniamo la Alef – la guida, la responsabilità, l'autorità, Dio – con la Bet – la casa, l'intimità – otteniamo אב, ‘Abb, padre. Vedete? Nella mente di Dio, come espressa attraverso la Sua lingua sacra, un padre non è definito da concetti filosofici astratti di 'paternità'. È definito da azioni concrete e ruoli precisi: è colui che porta la forza, la guida, la responsabilità e l'autorità divina (Alef) all'interno della casa, della famiglia (Bet)."
Gli occhi di Demetrio si illuminarono di una nuova comprensione. Non si trattava di un potere dispotico, ma di una responsabilità delegata, radicata nel carattere stesso di Dio.
"Questo significa," intervenne Lidia, la voce ancora esitante, "che l'autorità del padre in casa è un riflesso dell'autorità di Dio?"
"Esattamente, Lidia," rispose Paolo. "Ma non un'autorità fine a sé stessa, o usata per il proprio vantaggio. È un'autorità che guida, protegge, provvede, e che è responsabile davanti all'Alef supremo, l'Eterno stesso. Il padre è il 'leader della casa', ma un leader che serve, che si prende cura, che riflette il carattere del Padre Celeste, il quale è Abbà, Padre nostro, come ci ha insegnato il Signore Yeshua."
Paolo continuò, spiegando come Yeshua stesso avesse usato la forma aramaica intima אבא (Abbà), "Papà mio", nel momento della sua più profonda agonia nel Getsemani, mostrando una relazione di fiducia e dipendenza assolute.
"Vedete," disse Paolo, guardandoli entrambi, "la lingua ebraica spazza via ogni filosofia ideologica su cosa sia un padre. Ci dà un'immagine concreta, un ruolo attivo. Per te, Demetrio, essere 'padre' o 'capo della casa' non significa imporre la tua volontà in modo arbitrario, ma essere la Alef nella tua Bet: portare la guida spirituale, la stabilità, la responsabilità di fronte a Dio per il benessere della tua famiglia. E per te, Lidia, comprendere questo può aiutarti a vedere il ruolo di tuo marito non come una minaccia alla tua persona, ma come un disegno divino per l'ordine e la crescita della vostra casa."
Rimasero in silenzio per un momento, meditando sulle sue parole. La semplice analisi di due lettere ebraiche aveva aperto una finestra su una comprensione più profonda e pratica.
"Maestro," disse infine Demetrio, con una nuova umiltà, "ho molto da imparare su come essere la Alef che Dio intende, piuttosto che quella che la mia cultura o il mio ego suggeriscono."
Lidia sorrise timidamente. "E io," aggiunse, "devo imparare a vedere e sostenere quella Alef in lui, confidando che l'Eterno è l'Alef sopra di noi entrambi."
Paolo annuì, un sorriso di incoraggiamento sul volto. "L'Eterno è Uno, e il Suo disegno per la famiglia è uno di armonia e crescita, dove ogni parte svolge il suo ruolo secondo la Sua sapienza. Quando comprendiamo le fondamenta, anche l'edificio diventa più solido."
Mentre Demetrio e Lidia lasciavano la sua presenza, Paolo rifletté su quanto fosse cruciale recuperare la mentalità ebraica per afferrare appieno le verità del Vangelo. Le parole greche, per quanto utili, potevano facilmente essere svuotate del loro significato originale se slegate dalle loro radici semitiche. La rivelazione di Dio era avvenuta in un contesto specifico, attraverso una lingua specifica, e ignorare quel contesto significava rischiare di costruire su fondamenta sabbiose. E questo valeva per la comprensione di Dio come Padre, così come per il mistero altrettanto profondo del matrimonio.
Capitolo 12: Il Matrimonio a Corinto: Aquila e Priscilla
Anni dopo, il ministero di Paolo lo portò a Corinto, una metropoli portuale ancora più grande e dissoluta di Antiochia. Famosa per la sua ricchezza, il suo commercio e la sua sfrenata immoralità, incentrata sul culto di Afrodite nel tempio che dominava l'Acropoli, Corinto rappresentava una sfida immensa per il Vangelo. Fu qui che Paolo incontrò una coppia che sarebbe diventata non solo collaboratrice preziosa nel suo ministero, ma anche un esempio vivente delle dinamiche complesse e delle potenzialità trasformative del matrimonio vissuto secondo i principi divini.
Aquila e Priscilla (o Prisca, come a volte veniva chiamata) erano ebrei, fabbricanti di tende come Paolo stesso. Erano stati costretti a lasciare Roma a causa di un editto dell'imperatore Claudio che espelleva i Giudei dalla capitale. Giunti a Corinto, avevano continuato il loro mestiere. Quando Paolo arrivò in città, trovò alloggio e lavoro presso di loro, e presto scoprì che condividevano la stessa fede in Yeshua HaMashiach, il Messia.
Lavoravano insieme per lunghe ore, le mani abili a tagliare e cucire la tela robusta o il cuoio per le tende, mentre le loro menti e i loro cuori erano impegnati in discussioni profonde sul Regno di Dio e sulla nascente comunità di credenti a Corinto. Paolo osservava Aquila e Priscilla con interesse. Erano una squadra affiatata nel lavoro, intelligenti, devoti e chiaramente innamorati. Tuttavia, anche nel loro solido legame, Paolo percepiva a volte delle sottili increspature, delle tensioni che sembravano nascere da aspettative non dette o da una non perfetta comprensione dei rispettivi ruoli, specialmente nel contesto della loro nuova fede e del ministero che stavano iniziando a condividere.
Priscilla, in particolare, era una donna di notevole intelligenza e acume spirituale. Spesso, nelle discussioni, dimostrava una comprensione delle Scritture e delle implicazioni del Vangelo che rivaleggiava con quella di molti uomini. Aquila, suo marito, la ascoltava con rispetto, ma a volte Paolo notava in lui un velo di disagio, come se l'evidente capacità di sua moglie mettesse in discussione, in qualche modo, il suo ruolo di capo famiglia secondo la tradizione ebraica.
Una sera, dopo una giornata particolarmente faticosa di lavoro e di predicazione nella sinagoga, mentre condividevano un pasto frugale, la conversazione toccò il tema del matrimonio. Un giovane credente della comunità corinzia aveva chiesto consiglio a Paolo riguardo a delle difficoltà con la moglie.
"Il matrimonio," sospirò Paolo, più a sé stesso che agli altri, "è un mistero grande, che riflette l'unione di Cristo e della Chiesa. Ma spesso, noi uomini e donne, lo trasformiamo in un campo di battaglia invece che in un giardino di crescita."
Aquila annuì pensieroso. "A volte, Maestro Paolo, è difficile capire come bilanciare l'insegnamento della Scrittura con le realtà della vita quotidiana, specialmente quando si lavora e si serve il Signore insieme, come facciamo io e Priscilla."
Priscilla, che fino a quel momento era rimasta in silenzio, aggiunse con una nota di cautela: "Ci sono momenti in cui sento di avere un'intuizione, una comprensione che potrebbe essere d'aiuto, ma temo di oltrepassare i limiti, di non onorare il ruolo di Aquila come mio sposo e guida."
Paolo li guardò con affetto. Vedeva in loro un potenziale immenso, ma anche la necessità di una comprensione più profonda del disegno divino per la coppia. Era un'opportunità preziosa per insegnare, non solo a loro, ma attraverso di loro, all'intera comunità.
"Amici miei," disse Paolo, "forse è il momento di esplorare ciò che l'Eterno intendeva quando ha istituito il matrimonio, fin dal principio, nel Giardino. Spesso ci fermiamo alle tradizioni umane o alle interpretazioni superficiali, senza scavare fino alla radice, fino al cuore del Suo pensiero, così come ci viene rivelato nella nostra lingua madre, l'ebraico."
Era l'inizio di una serie di conversazioni e insegnamenti che Paolo avrebbe condiviso con Aquila e Priscilla, e in seguito con la più ampia comunità di Corinto e attraverso le sue lettere. Insegnamenti che avrebbero toccato la natura dell'egoismo umano, il vero significato dell'essere "aiuto idoneo", la dinamica del sostegno reciproco e la sacra presenza di Dio all'interno dell'unione matrimoniale.
Aquila e Priscilla, con la loro intelligenza e la loro fame di verità, sarebbero diventati studenti attenti e, col tempo, esempi viventi di come la comprensione profonda dei principi divini potesse trasformare una relazione, rendendola non solo più armoniosa, ma anche più fruttuosa per il Regno di Dio. Le loro tensioni, lungi dall'essere un ostacolo, divennero il terreno fertile su cui Paolo poté seminare alcune delle sue più profonde rivelazioni sul mistero nuziale. Corinto, con le sue sfide e le sue opportunità, sarebbe diventata una palestra cruciale per l'apostolato di Paolo, e il matrimonio di Aquila e Priscilla un microcosmo in cui esplorare le verità eterne del cuore di Dio.
Capitolo 13: "Non è Bene che l'Uomo sia Levadò"
Le serate nell'abitazione di Aquila e Priscilla a Corinto, dopo le fatiche del giorno, divennero spesso occasione di insegnamento e riflessione. Paolo, seduto su uno sgabello basso, con la luce tremolante di una lucerna a olio che proiettava ombre danzanti sulle pareti, apriva i rotoli delle Scritture o semplicemente parlava attingendo alla sua profonda conoscenza e alla rivelazione divina.
Una di quelle sere, riprendendo il discorso sulle difficoltà matrimoniali che affliggevano alcuni membri della giovane comunità corinzia, e forse percependo ancora qualche non detto tra i suoi ospiti, Paolo si concentrò su una delle affermazioni fondamentali della Genesi.
"Ricordate le parole dell'Eterno Elohim dopo aver creato il maschio, Adam?" chiese, il suo sguardo che passava da Aquila a Priscilla. "In Genesi leggiamo: 'Non è buono che l'uomo sia solo; io gli farò un aiuto che gli sia convenevole'. Questa traduzione, sebbene comune, non coglie appieno la profondità dell'originale ebraico."
Paolo fece una pausa, lasciando che le parole familiari risuonassero nella stanza. Poi continuò: "La frase ebraica è: lo tov heyot ha'adam levado. La parola chiave qui, spesso tradotta semplicemente con 'solo', è levadò."
Tracciò le lettere ebraiche sulla sabbia sparsa sul pavimento per facilitare la scrittura, come faceva spesso. ל-ב-ד-ו.
"La radice di levadò," spiegò, "è la parola בדד (vadad). E vadad non significa essere senza compagnia. Significa qualcosa di più profondo: isolarsi, separarsi, essere indipendente nel senso di autosufficiente, vivere centrati su sé stessi, con sé stessi e per sé stessi."
Aquila e Priscilla si scambiarono un'occhiata. L'intuizione di Paolo sembrava toccare una corda sensibile.
"Quindi," proseguì l'apostolo, "una traduzione più accurata e penetrante di quella frase potrebbe essere: 'Non è bene che il maschio viva per sé stesso, focalizzato unicamente sulle sue necessità, sui propri desideri e interessi, una condizione che potrebbe condurlo a una vita di egoismo'. L'Eterno, nella Sua sapienza, vide che questa condizione di levado, di autosufficienza egocentrica particolare nel maschio, non era 'buona', non era conforme al Suo disegno per l'umanità."
Paolo li guardò intensamente. "Quante volte, anche nel matrimonio, accade che l'uomo, pur vivendo sotto lo stesso tetto con la moglie, continui a vivere in questa condizione di levado? Ognuno focalizzato sui propri bisogni, sui propri sentimenti, minimizzando o ignorando le necessità e le emozioni dell'altro? Questa è la radice di innumerevoli conflitti, di muri invisibili che si ergono tra due persone che pure si sono promesse amore."
Il silenzio nella stanza era denso. Le parole di Paolo sembravano descrivere una dinamica fin troppo comune, non solo a Corinto, ma in ogni cuore umano.
"Il matrimonio," continuò Paolo con voce più dolce ma ferma, "è precisamente l'opportunità che Dio ci dona per rompere questo schema di levado, per spezzare l'egoismo naturale che abita nel cuore dell'uomo e anche della donna. È una scuola divina di decentramento da sé stessi."
"Ma come si esce da questa condizione, Maestro?" chiese Aquila, la sua fronte corrugata in segno di riflessione. "È così facile ricadere nel pensare prima a sé."
"È una scelta quotidiana, Aquila," rispose Paolo. "Una scelta di abbandonare lo stato di levado. Smettere di vivere primariamente per sé stessi e iniziare a focalizzarsi attivamente sul bene dell'altro. Chiedersi: 'Di cosa ha bisogno mia moglie oggi? Come posso servirla, comprenderla, sostenerla?' E tu, Priscilla, lo stesso verso Aquila. Quando entrambi i coniugi abbandonano consapevolmente la fortezza del proprio io, allora possono iniziare a sperimentare ciò che l'Eterno intende per unione."
Paolo si interruppe, poi aggiunse un altro concetto chiave. "Quando questo avviene, allora si può sperimentare נישואין (Nisuin), la parola ebraica per matrimonio. Ogni parola ebraica, come sapete, ha una radice. La radice di Nisuin è la parola נשא (Nasà), che significa 'alzare', 'elevare', 'caricare', 'sostenere'. Quindi, Nisuin, il matrimonio, nel pensiero di Dio, è un mutuo elevare, un mutuo sostenere, un caricarsi a vicenda i fardelli e le gioie."
"Un mutuo elevare..." mormorò Priscilla, come assaporando le parole. "È un'immagine bellissima, molto diversa dal semplice 'stare insieme'."
"Infatti," confermò Paolo. "Quando i coniugi smettono di vivere in levadò e iniziano a praticare Nisuin, allora sperimentano una crescita spirituale, una maturità emotiva, una pienezza di benedizioni che l'Eterno desidera riversare su di loro. Dio sapeva, fin dal principio, che senza 'qualcuna' che aiutasse il maschio a uscire dal suo potenziale egocentrismo, egli sarebbe facilmente caduto in uno stile di vita egoista. Per questo, l'Eterno stabilisce la soluzione perfetta, dicendo: 'Gli farò un aiuto idoneo'."
Paolo lasciò che quest'ultima frase aleggiasse nell'aria, preparando il terreno per il prossimo, cruciale, insegnamento sul ruolo specifico della donna nel disegno divino. La comprensione del levadò era il primo passo fondamentale: riconoscere la tendenza umana all'autosufficienza egoistica che il matrimonio era chiamato a contrastare e a guarire. Senza questa consapevolezza, ogni discussione sui ruoli e sulle responsabilità all'interno della coppia sarebbe rimasta superficiale. Aquila e Priscilla, come molti altri, stavano iniziando a vedere che il matrimonio, nella mente di Dio, era molto più di un contratto sociale o di una compagnia romantica: era un potente strumento di santificazione e di mutua elevazione.
Capitolo 14: Ezer Keneghdò: Il Soccorso che Fà Muro
La lucerna a olio continuava a gettare la sua luce calda e danzante mentre Paolo riprendeva il filo del suo insegnamento, gli occhi fissi su Aquila e Priscilla, che pendevano dalle sue labbra. Aveva appena piantato il seme della comprensione del levadò, la condizione di egoistica autosufficienza che il matrimonio era chiamato a smantellare. Ora, era pronto a svelare il significato profondo dell' "aiuto idoneo" promesso da Dio ad Adamo: la Donna.
"Abbiamo letto che l'Eterno disse: 'Gli farò un aiuto idoneo'," riprese Paolo. "Nelle vostre traduzioni greche questa espressione viene spesso resa in modi che possono essere fuorvianti. Molti la interpretano come se la donna fosse stata creata semplicemente per essere un'assistente dell'uomo, una sorta di subordinata il cui compito principale è servirlo e acconsentire a ogni sua richiesta. Ma l'originale ebraico, עזר כנגדו (Ezer Keneghdò), ci rivela una verità molto più potente e sfaccettata."
Paolo si soffermò sulla prima parola: עזר (Ezer).
"La parola Ezer," spiegò, "non significa un aiuto qualsiasi, un semplice 'dare una mano'. In tutta la Scrittura, questo termine, quando non è riferito alla donna in questo specifico passo della Genesi, viene usato esclusivamente per descrivere l'intervento potente di Dio stesso! È il soccorso divino, l'aiuto che viene dall'Alto, spesso in momenti di grande difficoltà o pericolo."
Citò a memoria dal Salmo 33: "L'anima nostra attende il Signore; Egli è nostro aiuto (Ezer) e nostro scudo." E dal Salmo 121: "Il mio aiuto (Ezer) viene dal Signore, che ha fatto il cielo e la terra."
"Vedete?" disse Paolo, il suo tono carico di enfasi. "Quando l'Eterno decide di dare un Ezer al maschio, non sta parlando di una domestica o di una segretaria. Sta parlando di un intervento divino potente, un soccorso che ha la sua origine in Dio stesso. La donna, in questo senso, è un dono di Dio all'uomo che porta con sé una forza e un aiuto di natura divina."
Priscilla ascoltava con un'intensità particolare, un barlume di nuova consapevolezza che le illuminava gli occhi. Aquila, a sua volta, sembrava profondamente colpito da questa interpretazione.
"Ma la parola Ezer," continuò Paolo, "è seguita da כנגדו (Keneghdò). E qui sta un altro punto cruciale, spesso frainteso. Keneghdò viene comunemente tradotto come 'idonea', 'convenevole', 'che gli corrisponda'. E questo è vero, ma c'è di più. La radice di Keneghdò porta con sé il significato di 'contro, fare muro', 'di fronte a', 'in opposizione a'."
Un leggero sconcerto apparve sui volti dei suoi ascoltatori. Opposizione?
Paolo sorrise lievemente, anticipando la loro reazione. "Non un'opposizione distruttiva o ribelle," si affrettò a chiarire. "Ma un'opposizione che confronta, che fa da contrappeso, che completa. Immaginate un muro che si erge di fronte a un altro muro per sostenere una struttura, o due forze che si bilanciano a vicenda. La donna, come Ezer Keneghdò, è stata creata per una missione duplice da parte dell'Eterno nel disegno del matrimonio."
Fece una pausa per lasciare che il concetto si sedimentasse.
"La sua prima missione," spiegò, "è quella di aiutare l'uomo ponendosi come 'muro di fronte', come colei che confronta, quando è necessario. Ovvero, quando l'uomo inizia a scivolare nuovamente nel levadò, quando prende decisioni egoistiche, quando si sta allontanando dalla volontà dell'Eterno o trascurando le sue responsabilità. In quei momenti, la donna è chiamata a essere quella 'forza contraria' proveniente direttamente da Dio che lo aiuta a rimettersi in carreggiata, a non deviare."
"Invece," proseguì, "quando l'uomo vive conformemente alla volontà di Dio, prende decisioni responsabili e cammina rettamente, allora questo aiuto potente della donna, l'Ezer, si manifesta come un sostegno straordinario, un supporto che lo rafforza e lo incoraggia nella missione difficile che ha di fronte all'Eterno. Lo completa, lo affianca con la sua forza unica."
"Quindi," disse Aquila, riflettendo ad alta voce, "quando a volte percepisco l'opinione di Priscilla come una critica, o un'opposizione a una mia idea... potrebbe essere in realtà l'Eterno che opera attraverso di lei come Keneghdò?"
"Esattamente, Aquila!" esclamò Paolo. "Quando il maschio non comprende questo duplice ruolo che Dio ha posto nel cuore e nell'indole della donna, può facilmente interpretare la sua 'opposizione' costruttiva come un attacco personale, una critica negativa, un tentativo di minare la sua autorità. Ma se l'uomo è saggio, riconoscerà che ciò che percepisce come una sfida potrebbe essere, in realtà, un intervento potente dell'Eterno attraverso la sua sposa. Un aiuto divino per non deviare dalla sua chiamata spirituale, per non cadere nell'egoismo o nell'autosufficienza."
Paolo si rivolse poi a Priscilla. "E tu, Priscilla, quando comprendi questa missione che ti è stata affidata da Dio, sai che la tua 'opposizione' non deve essere mossa da spirito di contesa o da desiderio di prevaricazione, ma da un amore sincero per tuo marito e dalla fedeltà all'Eterno. E pregherai per chiedere all'Eterno discernimento su come comunicare questa tua funzione di Keneghdò nel modo migliore, con dolcezza e rispetto, affinché le tue parole non vengano percepite come un attacco, ma come un vero aiuto."
"È un equilibrio delicato," mormorò Priscilla, "ma incredibilmente liberatorio. Non sentirsi solo una 'seguace', ma una 'soccorritrice' e una 'bilanciatrice'."
"Infatti," concluse Paolo. "Quando non si conoscono queste funzioni e questi obiettivi rispettivi dell'uomo e della donna, come stabiliti da Dio fin dalla Creazione, sorgono conflitti, frustrazioni e incomprensioni, a volte anche molto gravi. Ma quando si afferra il concetto di Ezer Keneghdò, si scopre che la donna non è un 'accessorio' dell'uomo, ma un dono divino essenziale, dotato di una forza e una saggezza specifiche per aiutarlo a diventare l'uomo, la guida che Dio lo ha chiamato ad essere, e per costruire insieme un matrimonio che onori il Creatore."
Le parole di Paolo avevano aperto una nuova, profonda prospettiva sul ruolo della donna nel matrimonio. Non una figura passiva o sottomessa in senso deteriore, ma un agente attivo, un "soccorso divino potente" che a volte confronta e a volte completa, essenziale per l'equilibrio e la crescita dell'uomo e della coppia. Aquila e Priscilla si guardarono con occhi nuovi, iniziando a intravedere la bellezza e la potenza del disegno originale di Dio per la loro unione.
Capitolo 15: Nisuin – Elevarsi a Vicenda
Le conversazioni serali a casa di Aquila e Priscilla continuarono, e ogni nuova intuizione che Paolo condivideva sembrava aggiungere un tassello prezioso al mosaico della loro comprensione del matrimonio. Dopo aver esplorato il pericolo del levadò e la potenza dell'Ezer Keneghdò, Paolo volle approfondire il concetto stesso di matrimonio come processo dinamico di crescita.
"Abbiamo accennato l'altra sera," iniziò Paolo, riprendendo il filo del discorso, "alla parola ebraica per matrimonio, נישואין (Nisuin), e alla sua radice נשא (Nasà), che significa 'alzare', 'elevare', 'caricare', 'sostenere'. Vorrei che riflettessimo più a fondo su cosa significhi questo 'mutuo elevare' nella vita di coppia."
Si alzò e camminò lentamente per la piccola stanza, come per raccogliere i pensieri. "Il matrimonio, nella mente di Dio, non è uno stato statico, un traguardo raggiunto il giorno delle nozze e poi lasciato a sé stesso. È un viaggio, un processo continuo di Nisuin, di reciproco innalzamento. È l'arte di aiutarsi a vicenda a diventare la versione santa di sé stessi, quella che l'Eterno ha sognato per ognuno."
"Ma come si traduce questo 'elevarsi a vicenda' nella pratica quotidiana, Maestro?" chiese Aquila, sempre desideroso di concretezza. "A volte, le pressioni del lavoro, le preoccupazioni, le nostre stesse debolezze sembrano tirarci verso il basso, piuttosto che elevarci."
"È una domanda giusta, Aquila," rispose Paolo. "Il Nisuin non avviene automaticamente. Richiede impegno, intenzione e, soprattutto, la grazia di Dio che opera in entrambi i coniugi. Si manifesta in molti modi."
"Innanzitutto," continuò, "significa sostenersi a vicenda nei momenti di debolezza. Quando uno dei due è scoraggiato, stanco, o sta lottando con una tentazione, l'altro non lo giudica né lo abbandona, ma diventa un Nasà, colui che 'carica' parte di quel peso, che 'solleva' lo spirito abbattuto con parole di incoraggiamento, con la preghiera, con la pazienza."
"Significa anche celebrare e incoraggiare i doni e i talenti dell'altro," aggiunse, guardando Priscilla con un sorriso d'intesa, consapevole delle sue notevoli capacità. "Se tua moglie ha un dono per l'insegnamento o per il discernimento spirituale, Aquila, il Nisuin ti chiama a rallegrartene, a creare opportunità perché quel dono fiorisca e benedica la comunità, invece di sentirti minacciato o sminuito. E tu, Priscilla, quando vedi Aquila esercitare la sua guida con saggezza o il suo mestiere con integrità, il tuo sostegno e la tua ammirazione lo 'elevano' e lo confermano nel suo ruolo."
"È come se fossimo due piante che crescono nello stesso vaso," mormorò Priscilla, "e ci aiutiamo a vicenda a raggiungere la luce."
"Un'immagine appropriata," convenne Paolo. "Inoltre, il Nisuin implica una crescita spirituale condivisa. Pregare insieme, studiare le Scritture insieme, cercare insieme la volontà del Signore per la vostra famiglia e per il vostro ministero. Quando una coppia si 'eleva' insieme verso Dio, la loro unione terrena si rafforza e si santifica."
Paolo si fermò davanti ad Aquila. "Pensa a quando lavori la tela per una tenda, Aquila. A volte devi tirare, a volte allentare, a volte cucire con un filo più robusto in certi punti per dare solidità all'intera struttura. Il Nisuin è simile: richiede discernimento per capire quando il coniuge ha bisogno di essere spronato con amore, e quando invece ha bisogno di essere avvolto nella compassione e nella grazia."
"È un compito arduo," commentò Aquila, "richiede molta più saggezza di quanta io ne possegga."
"Da soli, sarebbe impossibile," replicò Paolo. "Ma non siete soli. Il Signore Yeshua è Colui che per primo ci ha 'elevati' dalla morte alla vita, e il Suo Spirito ci dà la forza e la sapienza per praticare il Nisuin. È un processo di apprendimento continuo, fatto di tentativi, di errori, di perdono reciproco e di nuova determinazione."
Poi si rivolse ad entrambi. "Ricordate il libro dei Proverbi? 'Chi ha trovato una moglie ha trovato una fortuna, e ha ottenuto la benevolenza del Signore'. La traduzione ebraica originale usa la parola טוֹב (tov), che significa 'una cosa buona', 'un bene prezioso'. E perché è una fortuna, un bene prezioso? Perché una moglie, come Ezer Keneghdò, è colei che ti impedisce di vivere per te stesso (levadò) e, come partner nel Nisuin, ti aiuta ad elevarti, a crescere, ad adempiere la chiamata di Dio. È un aiuto potente da parte dell'Eterno che ti appoggia quando percorri cammini di giustizia e ti confronta quando rischi di deviare."
"Questo dà un significato completamente nuovo al nostro essere insieme," disse Priscilla, gli occhi lucidi. "Non solo compagni di vita, ma compagni di elevazione."
"Esattamente," concluse Paolo. "Quando una coppia abbraccia il Nisuin, il loro matrimonio diventa una testimonianza vivente della grazia redentrice di Dio. Diventa un luogo di rifugio, di crescita e di benedizione, non solo per loro stessi, ma per tutti coloro che li circondano. È questo il tipo di matrimonio che l'Eterno desidera per i Suoi figli, un matrimonio che Lo glorifichi e che manifesti la bellezza del Suo disegno."
Aquila e Priscilla rimasero in silenzio per un po', meditando sulla profondità di quell'insegnamento. Il concetto di Nisuin trasformava la visione del matrimonio da un semplice accordo o una relazione affettiva in una dinamica spirituale attiva, un impegno costante a sostenersi e innalzarsi a vicenda verso Dio e verso la pienezza della vita in Cristo. Stavano imparando che il loro amore, guidato dalla sapienza divina, poteva diventare una forza potente per la trasformazione personale e per l'avanzamento del Regno.
Capitolo 16: Ish e Ishah: Il Fuoco (אש) e la Presenza di Yah (יה)
L'aria nella stanza sembrava carica di una quiete riverente dopo le parole di Paolo sul Nisuin. Aquila e Priscilla, seduti vicini, si guardarono con un'intesa nuova, come se gli insegnamenti dell'apostolo stessero ridisegnando i contorni della loro stessa unione. Paolo, percependo la loro ricettività, decise di addentrarsi ancora più a fondo nella mistica della lingua ebraica applicata al matrimonio.
"C'è un altro aspetto affascinante che la nostra lingua sacra ci rivela," riprese, la sua voce ora più sommessa, quasi confidenziale. "Riguarda le parole stesse per 'uomo' e 'donna' in ebraico, e la loro intrinseca connessione con la presenza divina."
Prese di nuovo il suo pezzetto di carbone e, sul coccio di terracotta che ormai fungeva da lavagnetta improvvisata, tracciò due parole.
"Uomo, o maschio, in ebraico si pronuncia איש (Ish)," disse, scrivendo א-י-ש. "Donna, o femmina, si pronuncia אשה (Ishah)," e scrisse א-ש-ה.
"Osservate attentamente queste due parole," li invitò. "Notate qualcosa di particolare?"
Aquila e Priscilla chinarono il capo, esaminando le lettere. Dopo un momento, fu Priscilla a parlare. "Hanno due lettere in comune, la Alef (א) e la Shin (ש)."
"Esatto, Priscilla!" esclamò Paolo, compiaciuto della sua acutezza. "La Alef (א) e la Shin (ש). E se uniamo queste due lettere, cosa otteniamo?" Scrisse אש. "Otteniamo la parola אש (Esh), che in ebraico significa 'fuoco'."
Un brivido sottile percorse la schiena di Lidia. Il fuoco. Un elemento potente, ambivalente.
"Il fuoco, nella Scrittura," continuò Paolo, "ha una duplice connotazione. In senso negativo, può significare prove, problemi, conflitti, difficoltà, la distruzione. Pensate al fuoco che consuma, al fuoco del giudizio. Ma in senso positivo, il fuoco significa anche purificazione, passione, potenza, la presenza stessa di Dio, come nel roveto ardente o nella colonna di fuoco nel deserto."
"Quindi," intervenne Aquila, "il fatto che 'uomo' e 'donna' condividano le lettere per 'fuoco' significa che la loro unione ha intrinsecamente questo potenziale ambivalente?"
"Proprio così, Aquila," confermò Paolo. "L'Eterno, nel Suo disegno, ha posto questo 'fuoco' al cuore della relazione tra Ish e Ishah. È lasciata alla responsabilità del maschio e della femmina, alla loro saggezza, al loro impegno nel Nisuin, alla loro sottomissione a Dio, il trasformare questa unione in un fuoco di conflitto e distruzione, o in un fuoco di purificazione, passione santa e potenza divina."
"È una responsabilità enorme," mormorò Priscilla, pensierosa.
"Lo è," assentì Paolo. "Ma non finisce qui. Guardiamo ora le lettere che non coincidono in איש (Ish) e אשה (Ishah)."
Cerchiò la Yud (י) nella parola Ish e la Hei (ה) nella parola Ishah.
"Nell'uomo, Ish, abbiamo la lettera Yud (י). Nella donna, Ishah, abbiamo la lettera Hei (ה). Queste due lettere, la Yud e la Hei, sono speciali. Se le uniamo, י-ה, formano la parola יה (Yah)."
Fece una pausa significativa, lasciando che il suono di quella parola risuonasse.
"E Yah," continuò con solennità, "è il Nome poetico dell'Eterno. È una forma del Tetragramma Sacro, YHVH. È il respiro stesso di Dio."
Gli occhi di Aquila e Priscilla si spalancarono per la meraviglia.
"Cosa significa questo?" chiese Paolo, con un tono quasi retorico. "Significa che quando il maschio (Ish), portando la sua Yud che è il principio maschile, e la femmina (Ishah), portando la sua Hei che è il principio femminile, si uniscono secondo il disegno divino, l'Eterno Stesso, Yah, è in mezzo a loro. È la Sua presenza che li fonde, che santifica quel 'fuoco' (אש) che condividono, trasformandolo da potenziale distruzione in benedizione e potenza."
"Per questo," affermò con forza, "il matrimonio nella mente di Dio non è mai, e non può mai essere, una relazione solo a due. È sempre una relazione a tre: l'uomo, la donna, e l'Eterno in mezzo a loro. Se la Yud dell'uomo e la Hei della donna, che rappresentano la presenza di Yah, vengono rimosse dalla relazione, cosa rimane?"
Cancellò idealmente la Yud da Ish e la Hei da Ishah. "Rimane solo אש (Esh), il fuoco. Un fuoco senza la presenza santificante di Dio è un fuoco che consuma, che distrugge, che porta a conflitti e amarezze."
"Questa è una rivelazione sconvolgente," disse Aquila, la voce rotta dall'emozione. "La presenza di Dio non è solo un 'extra' auspicabile nel matrimonio, ma è ciò che lo costituisce nella sua essenza più vera."
"Esattamente," confermò Paolo. "Se non si conoscono i ruoli specifici, le potestà e le responsabilità che l'uomo e la donna posseggono all'interno del matrimonio, come abbiamo discusso parlando di Ezer Keneghdò e Nisuin, e se non si comprende che la presenza attiva di Yah è essenziale per trasformare il 'fuoco' in benedizione, si rischia di fraintendere completamente il significato stesso del matrimonio nella mente di Dio."
"Il matrimonio," concluse Paolo, con uno sguardo che abbracciava la coppia, "è dunque un mistero sacro. Un luogo dove l'umano e il divino si incontrano. Dove il fuoco della passione e delle prove può essere santificato dalla presenza di Yah, trasformando due individui, Ish e Ishah, in un'unica carne che riflette la gloria e l'amore dell'Eterno. È un compito altissimo, una vocazione sublime, degna di ogni nostro sforzo e della nostra più profonda devozione."
Aquila e Priscilla rimasero a lungo in silenzio, contemplando la bellezza e la profondità di quella visione. Le semplici lettere ebraiche avevano dischiuso loro un universo di significato, rivelando il matrimonio non come una mera istituzione umana, ma come un'opera divina, un palcoscenico su cui la presenza stessa di Dio desiderava manifestarsi. La loro unione, ora, appariva loro sotto una luce completamente nuova, carica di una responsabilità sacra e di una promessa meravigliosa.
Capitolo 17: Davak – Aggrapparsi all'Unico Amore
Il chiarore dell'alba cominciava a filtrare attraverso le fessure della finestra, annunciando un nuovo giorno a Corinto. Paolo, Aquila e Priscilla avevano trascorso gran parte della notte a discutere, a esplorare le profondità del disegno divino per il matrimonio. Nonostante la stanchezza, i loro volti erano illuminati da una nuova comprensione, da un rinnovato entusiasmo.
"C'è un ultimo concetto fondamentale, radicato nella Genesi, che vorrei condividere con voi," disse Paolo, la sua voce leggermente affaticata ma ancora carica di passione. "Riguarda il momento in cui, dopo la creazione della donna dal fianco dell'uomo, la Scrittura dichiara: 'Perciò l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua moglie, e saranno una sola carne'."
Paolo si concentrò sulla parola ebraica tradotta con "si unirà". "In ebraico," spiegò, "il testo dice ודבק באשתו (ve'davak be'ishto). La parola chiave è דבק (Davak)."
Tracciò le lettere ד-ב-ק sulla sua ormai consueta tavoletta di coccio.
"La radice Davak," continuò, "è incredibilmente potente. Non significa semplicemente 'unirsi' nel senso di stare insieme o associarsi. Davak significa 'aggrapparsi', 'aderire con forza', 'incollarsi a', 'essere saldamente attaccato a'. Porta con sé l'idea di una fusione così profonda che le due entità diventano quasi indistinguibili, pur mantenendo la loro individualità. È un legame tenace, perseverante, che resiste alle forze che tenterebbero di separarlo."
Paolo alzò lo sguardo, incontrando quello attento di Aquila e Priscilla. "Pensate alla resina che si attacca così tenacemente al legno da diventare un tutt'uno con esso. O all'edera che si avvinghia a un muro con tale forza da sembrare parte della pietra stessa. Questo è Davak."
"Questo tipo di unione," proseguì, "richiede una decisione attiva, un impegno costante. 'Lasciare' padre e madre non è solo un atto fisico di separazione dalla famiglia d'origine, ma anche un atto emotivo e di priorità. Significa stabilire una nuova lealtà primaria, dove il coniuge diventa il centro di un nuovo nucleo familiare, un nucleo a cui ci si 'aggrappa' con fedeltà incrollabile."
"Ma c'è di più," aggiunse Paolo, e la sua voce si fece più solenne. "Il termine Davak non è usato nella Scrittura solo per descrivere l'unione matrimoniale. È usato, in modo ancora più profondo, per descrivere la relazione che l'Eterno desidera avere con il Suo popolo, Israele. Più volte, nei libri di Mosè e nei Profeti, al popolo viene comandato di 'aggrapparsi' ( davak) all'Eterno, di essereGli fedele, di non lasciarLo per seguire altri dèi."
Citò dal Deuteronomio: "Temerai l'Eterno, il tuo Dio, a Lui servirai e a Lui ti terrai stretto (davak)."
"Vedete il parallelismo?" chiese Paolo. "L'unione matrimoniale, nel suo ideale divino, è un riflesso terreno di quell'unione spirituale, di quella fedeltà assoluta e di quell'adesione profonda che Dio desidera dal Suo popolo. Quando un uomo e una donna si 'aggrappano' l'uno all'altra in Davak, con la presenza di Yah (יה) in mezzo a loro a santificare il fuoco (Esh) della loro relazione, stanno vivendo un'anticipazione, un'icona, dell'amore fedele e indissolubile che lega Cristo alla Sua Chiesa."
Aquila annuì lentamente, la profondità del concetto che si faceva strada nella sua mente. "Quindi, Davak non è solo attrazione o affetto. È una scelta di fedeltà radicale, come quella che dobbiamo a Dio."
"Esattamente, Aquila," confermò Paolo. "È un impegno che dice: 'Io scelgo te, mi aggrappo a te, in ogni circostanza, buona o cattiva, nella ricchezza e nella povertà, nella salute e nella malattia, finché morte non ci separi'. Questo è l'eco del patto divino. E quando questo Davak è vissuto, il risultato è che 'saranno una sola carne' – non solo fisicamente, ma emotivamente, spiritualmente, una nuova unità creata da Dio."
Priscilla, con gli occhi lucidi, prese la mano di Aquila. "Tutti questi anni," disse a bassa voce, "abbiamo cercato di costruire un buon matrimonio. Ma questi insegnamenti, Maestro Paolo... ci mostrano una profondità, una sacralità che avevamo solo intuito. Levadò, Ezer Keneghdò, Nisuin, Ish, Ishah, Esh, Yah, Davak... sono come chiavi che aprono stanze segrete del cuore di Dio."
Paolo sorrise, un sorriso stanco ma pieno di gioia. "L'Eterno desidera rivelarci i Suoi misteri, amici miei. E il matrimonio è uno dei più grandi, perché parla del Suo amore per noi. Quando comprendiamo e viviamo questi principi, non solo la nostra unione ne viene trasformata, ma diventiamo una testimonianza potente per un mondo che ha un disperato bisogno di vedere l'amore fedele e redentore di Dio incarnato in Yeshua nostro Signore."
Mentre il sole sorgeva pienamente su Corinto, inondando la stanza di luce dorata, Aquila e Priscilla sentivano che qualcosa di profondo era cambiato dentro di loro. Gli insegnamenti di Paolo, radicati nella sapienza antica della lingua ebraica, avevano gettato una luce nuova sul loro passato e tracciato un sentiero più chiaro per il loro futuro insieme. Il loro matrimonio, già solido, era ora chiamato a un livello di intimità, impegno e collaborazione spirituale che prima potevano solo sognare. Avevano compreso che il loro "aggrapparsi" l'uno all'altra, il loro Davak, era parte di un disegno molto più grande, un amore che li legava non solo tra loro, ma all'Unico, Vero Amore che aveva dato origine a tutto.
Paolo, osservandoli, sapeva che il seme era stato piantato in terreno fertile. Aquila e Priscilla sarebbero diventati, come già stavano dimostrando, non solo abili fabbricanti di tende, ma anche costruttori di comunità, esempi viventi di come la fede in Yeshua e la comprensione profonda della Parola di Dio potessero trasformare ogni aspetto della vita, a cominciare dal più intimo e sacro dei legami umani: il matrimonio.
Capitolo 18: Il Fuoco (אש) Senza Yah (יה) – La Catechesi di Aquila e Priscilla
Le verità svelate da Paolo nella quiete delle serate corinzie non erano semi destinati a rimanere confinati nel cuore di Aquila e Priscilla. Come lievito nella pasta, cominciarono a fermentare, a far sorgere domande, a illuminare zone d'ombra non solo nel loro matrimonio, ma nella vita della giovane, tumultuosa comunità che si riuniva nella loro casa. Corinto, città di marinai e mercanti, di filosofi e cortigiane, era un crogiolo dove ogni forma di pensiero e di costume si mescolava, e la nuova fede in Yeshua doveva farsi strada in quel terreno fertile ma insidioso.
Accadde così che, tra i nuovi credenti, alcuni portassero con sé il fardello o la consuetudine di legami che si discostavano profondamente dal modello divino che Paolo aveva così vividamente dipinto. Uomini che avevano amato altri uomini, donne che si erano unite ad altre donne, pratiche comuni nel mondo greco-romano, ma che ora, alla luce della chiamata alla santità in Cristo, sollevavano interrogativi urgenti e dolorosi. Alcuni lottavano in silenzio, altri cercavano di conciliare il passato con la nuova fede, interrogandosi se la libertà in Yeshua significasse un'accettazione indiscriminata di ogni forma di unione.
Aquila e Priscilla, la cui comprensione del matrimonio era stata così profondamente arricchita dagli insegnamenti paolini sulla Genesi – sull'Ish e l'Ishah, sul fuoco dell'Esh santificato dalla presenza di Yah, sul Davak che lega e sull'Ezer Keneghdò che affronta e completa – si sentirono il cuore pesante. Non era un peso di giudizio, ma di responsabilità pastorale. Come potevano tacere di fronte a ciò che avevano compreso essere così fondamentale nel disegno di Dio?
Dopo notti di preghiera sussurrata, le loro voci che si univano nella penombra della stanza dove ancora aleggiava il profumo del cuoio e della tela, decisero che dovevano consultare il loro catechista, l'apostolo che li aveva generati nella fede più profonda. Presero la pergamena e, con parole semplici ma cariche di preoccupazione, esposero a Paolo la situazione di Corinto, chiedendo la sua luce, la sua guida apostolica.
La risposta di Paolo, recapitata da un fratello fidato dopo settimane di trepidante attesa, fu come un vento fresco e al contempo una spada affilata. L'apostolo, con la sua inconfondibile miscela di rigore teologico e di ardente sollecitudine per le anime, non usò mezzi termini. Ribadì l'ordine creativo, la bellezza della complementarietà tra uomo e donna come riflesso dell'immagine di Dio, e la gravità di quelle pratiche che la Scrittura, fin dal Levitico, definiva To'evah (תּוֹעֵבָה) “abominio”. Non un insulto scagliato con rabbia, spiegava Paolo nella sua missiva, ma una definizione sacra di ciò che è intrinsecamente disordinato, ripugnante alla santità dell'Eterno, spesso legato ai culti idolatri dei pagani e fonte di contaminazione spirituale. Pratiche che, se perseguite con ostinazione, aprivano le porte non alla presenza di Yah, ma alla distruzione personale, alla presenza di forze oscure, allo spirito del Serpente antico che fin dal Giardino aveva cercato di distorcere il buon piano di Dio.
Aquila lesse e rilesse le parole di Paolo, il suo volto serio. Priscilla, accanto a lui, sentiva il peso di quella verità, ma anche un profondo amore per coloro che, nella comunità, potevano sentirsi smarriti o confusi. Non si trattava di scacciare, ma di illuminare, di chiamare a quella conversione del cuore e della vita che il Vangelo esigeva.
Fu così che, una sera, la grande stanza di lavoro, rischiarata da più lucerne del solito, si riempì dei volti della comunità. C'era un'aria di attesa, forse di apprensione. Aquila si pose al centro, tenendo con reverenza la pergamena arrotolata che conteneva le parole dell'apostolo. Un silenzio carico di aspettativa calò sull'assemblea.
"Fratelli," iniziò Aquila, la sua voce calma ma autorevole, "abbiamo ricevuto una lettera dal nostro fratello e apostolo Paolo, in risposta alle nostre preghiere e alle nostre domande riguardo ad alcune questioni che toccano la vita della nostra comunità e la nostra chiamata alla santità. Ascoltiamo con cuore aperto e spirito docile le parole che il Signore ci rivolge attraverso di lui."
Con voce chiara e scandita, Aquila srotolò la pergamena e cominciò a leggere. La lettera di Paolo, come sempre, era densa di dottrina e ricca di esortazioni. Affrontava la questione della purezza morale, ricordava l'insegnamento delle Scritture sull'ordine creativo di Dio per l'uomo e la donna, e la natura delle relazioni che si conformavano a tale ordine. Ribadiva la gravità delle pratiche sessuali che se ne discostavano, usando la terminologia forte ma precisa della Torah, To'evah “abominio” spiegando che non si trattava di un giudizio sprezzante sulle persone, ma di una descrizione oggettiva di atti incompatibili con la santità divina e il disegno originario. Sottolineava come tali pratiche, spesso legate all'idolatria pagana, fossero una distorsione dell'immagine di Dio nell'umanità e, se perseguite ostinatamente, aprissero la porta all'influenza di forze spirituali avverse. La lettera, tuttavia, non si concludeva con la condanna, ma con un potente richiamo alla grazia trasformatrice di Cristo, alla possibilità di redenzione e di una vita nuova per chiunque si fosse trovato in tali condizioni, ricordando che "tali eravate alcuni di voi; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e mediante lo Spirito del nostro Dio".
Quando Aquila terminò la lettura, arrotolò con cura la pergamena e, guardando l'assemblea, pronunciò con solennità la formula consueta: "Parola dell'Apostolo delle Genti."
Un "Amen" sommesso risuonò nella stanza. Molti volti erano seri, alcuni turbati. Le parole dell'apostolo erano state dirette, incisive.
Dopo un momento di silenzio riflessivo, Aquila riprese la parola, questa volta non più come semplice lettore, ma come maestro e fratello maggiore nella fede, pronto a commentare e applicare quegli insegnamenti. "Fratelli," disse, il suo tono ora più intimo ma non meno fermo, "le parole dell'apostolo Paolo sono chiare e ci chiamano a una profonda riflessione. Come egli stesso ci ha insegnato, e come abbiamo meditato insieme, la comprensione del disegno di Dio per noi inizia fin dalle prime pagine della Genesi, dalla creazione dell'uomo e della donna a Sua immagine e somiglianza."
Fece un cenno a Priscilla, e lei si alzò, la sua presenza emanava una dolcezza ferma. "Ricordate, fratelli," disse, la sua voce chiara che raggiungeva ogni angolo, "quando abbiamo meditato insieme sulle parole ebraiche איש (Ish), l'uomo, e אשה (Ishah), la donna? Abbiamo visto come entrambe condividano le lettere אש (Esh), il 'fuoco', un fuoco che può ardere di passione santa o consumare nel conflitto. E abbiamo scoperto che la differenza, ciò che porta la benedizione, sono la Yud (י) dell'Ish e la Hei (ה) dell'Ishah, che insieme formano יה (Yah), il Nome dell'Eterno. È Yah che si pone in mezzo, santificando quel fuoco."
Il silenzio si fece più denso. Molti annuivano, ricordando quegli insegnamenti che avevano toccato profondamente la loro comprensione.
Aquila riprese, il tono della sua voce che si faceva più grave. "Ora, con lo stesso amore con cui abbiamo esplorato la bellezza del disegno di Dio, dobbiamo considerare, con l'aiuto delle parole dell'apostolo, cosa implica discostarsi da questo fondamento. Se consideriamo un'unione tra due maschi איש (Ish)," e qui il suo sguardo divenne particolarmente intenso, ma non accusatorio, "vediamo che manca la Hei (ה) della Ishah. Senza quella Hei, la specifica presenza di Yah (Yud+Hei), così come Dio l'ha voluta per l'unione umana fondamentale, non può formarsi. Il 'fuoco' (אש) di quella relazione, per quanto sincero possa essere l'affetto, rimane privo di quella specifica santificazione divina."
Priscilla aggiunse, la sua voce intrisa di una compassione che non comprometteva la verità: "E manca anche l'Ezer Keneghdò, quel 'soccorso di fronte' che la donna è chiamata ad essere per l'uomo, aiutandolo a non cadere nel levadò, nell'isolamento egocentrico. Due Ish insieme, ci insegna l'apostolo sulla scia della Genesi, rischiano di rimanere strutturalmente incompleti, privi di quel bilanciamento divino, cadendo inesorabilmente in un doppio egocentrismo."
Con la stessa pacata fermezza, Aquila continuò: "Allo stesso modo, un'unione tra due femmine אשה (Ishah) sarebbe priva della Yud (י) dell'Ish. Ancora una volta, la specifica combinazione che forma Yah sarebbe assente. E mancherebbe l'Abb (אב), quel principio di guida autorevole e responsabile che l'Eterno ha associato al maschio nella famiglia."
Ci fu un mormorio sommesso tra i presenti. Qualcuno abbassò lo sguardo, altri si scambiarono occhiate interrogative. Le parole erano dirette, ma il tono di Aquila e Priscilla era privo di asprezza, carico piuttosto di una sofferta preoccupazione.
"L'apostolo Paolo," riprese Priscilla, e la sua voce si fece più tenera, "ci ricorda che queste vie, così diverse dal modello divino, sono descritte nelle Scritture con termini forti come To'evah, “abominio”. Non per infliggere vergogna, ma per avvertirci che tali unioni, essendo intrinsecamente disordinate rispetto al piano del Creatore, non possono ricevere la pienezza della Sua benedizione e rischiano di lasciare il 'fuoco' umano senza la sua corretta canalizzazione divina, aprendo la via a influenze spirituali che non vengono da Dio."
"Fratelli," concluse Aquila, e la sua voce ora era un appello. "Il Signore Yeshua ci ha chiamati dalle tenebre alla Sua luce meravigliosa. Ci ha chiamati a una vita nuova, a un rinnovamento della mente e del cuore. Questo rinnovamento tocca ogni aspetto del nostro essere, comprese le nostre affezioni più profonde. Sappiamo che il cammino può essere difficile, che le lotte sono reali. Ma la grazia di Cristo è sovrabbondante. La Sua Parola è una lampada ai nostri piedi. E noi, come comunità, siamo qui per sostenerci a vicenda, per pregare gli uni per gli altri, per camminare insieme verso la santità, con amore, con pazienza, senza giudizi ma con una chiara comprensione del disegno buono e perfetto del nostro Dio."
La catechesi terminò, ma il dialogo era appena iniziato. Nei giorni e nelle settimane successive, molti si avvicinarono ad Aquila e Priscilla, alcuni con domande, altri con lacrime, altri ancora con un desiderio sincero di comprendere e di cambiare. La strada era tracciata: non quella del giudizio che schiaccia, ma quella della verità che, accolta con amore, conduce alla vera libertà e alla gioia di una vita vissuta in armonia con il Creatore. Corinto, con le sue luci e le sue ombre, continuava ad essere una palestra esigente per la giovane fede.
Parte Quarta: Il Testamento di una Fede Incarnata
Capitolo 18: Le Epistole: Tradurre l'Intraducibile
Gli anni passarono veloci, segnati da viaggi incessanti, dalla fondazione di nuove chiese, da gioie immense e da sofferenze indicibili. Paolo, instancabile, percorse in lungo e in largo le province dell'Impero Romano, portando il messaggio di Yeshua HaMashiach, Gesù il Messia, a Giudei e Gentili. Ma non sempre poteva essere fisicamente presente con le comunità che aveva generato nella fede. Fu così che iniziarono a nascere le sue lettere, le epistole, dettate spesso a un segretario fidato, a volte scritte di suo pugno con caratteri grandi, come tenne a sottolineare in quella ai Galati.
Queste lettere, scritte in greco koinè, la lingua franca del Mediterraneo orientale, erano destinate a comunità specifiche – Corinto, Efeso, Filippi, Tessalonica, Roma – per affrontare problemi particolari, correggere errori dottrinali, incoraggiare i credenti nelle prove, e approfondire la loro comprensione del Vangelo. Ma in ogni riga, in ogni argomentazione, pulsava il cuore di un uomo la cui mente era stata forgiata nell'ebraismo e la cui anima era stata folgorata da una rivelazione divina avvenuta in ebraico.
La sfida era immensa: come tradurre l'intraducibile? Come trasporre concetti profondamente radicati nella mentalità ebraica, nel linguaggio dell'Antico Patto, in una lingua, il greco, e per lettori spesso imbevuti di una cultura e una filosofia completamente diverse?
Paolo era acutamente consapevole di questo dilemma. Quando scriveva di "giustizia" i suoi lettori greci potevano intenderla come una virtù legale, mentre lui intendeva l'azione salvifica e fedele di Dio al patto che ristabilisce ciò che è giusto. Quando parlava di "legge" doveva fare attenzione a distinguere la Torah divina, santa e buona, dall'interpretazione legalistica che non tiene conto della gerarchia delle priorità, o dalla sua incapacità di salvare senza la fede in Cristo.
Cercava costantemente di colmare il divario. Spesso prendeva termini greci familiari e li "battezzava" con un nuovo significato cristiano, infondendo in essi la profondità della rivelazione ebraica. La parola "mistero" (μυστήριον - mysterion), che per i Greci evocava i culti iniziatici segreti, per Paolo diventava il piano salvifico di Dio, nascosto per secoli ma ora rivelato in Cristo: l'inclusione dei Gentili nel popolo di Dio, l'unione di Cristo e della Chiesa.
A volte, la concretezza ebraica irrompeva con forza nelle sue frasi greche. Quando parlava dell'essere "in Cristo", non intendeva un'appartenenza filosofica, ma un'unione vitale, organica, come quella di un tralcio alla vite, un concetto profondamente radicato nell'immagine biblica di Israele come vigna del Signore.
Le sue lettere erano piene di citazioni dall'Antico Testamento, tratte dalla Septuaginta (la traduzione greca delle Scritture Ebraiche), ma spesso interpretate e applicate in modi nuovi e sorprendenti alla luce di Cristo. Dimostrava come Yeshua fosse il compimento delle promesse, il "sì" di Dio a tutte le Sue antiche parole.
Pensava in ebraico, con la sua logica basata sul parallelismo, sull'associazione di idee, sulla concretezza delle immagini, e poi dettava in greco, cercando le strutture sintattiche e le figure retoriche che potessero veicolare al meglio quel pensiero. A volte, la sua prosa greca risultava complessa, quasi contorta, proprio a causa di questo sforzo di "traduzione" interiore. Le sue frasi lunghe, piene di incisi e di subordinate, riflettevano la profondità e la complessità del suo pensiero teologico, che cercava di abbracciare l'intero piano di Dio dalla creazione alla redenzione finale.
Anche i concetti sul matrimonio, che aveva esplorato con Aquila e Priscilla a Corinto, trovavano eco nelle sue lettere. Ai Corinzi, scrisse sulla santità del corpo e sulla relazione coniugale. Agli Efesini, dipinse il quadro sublime del matrimonio come riflesso dell'amore tra Cristo e la Chiesa, esortando i mariti ad amare le loro mogli come Cristo ha amato la Chiesa, e le mogli a rispettare i loro mariti. Questi insegnamenti, pur espressi in greco, erano intrisi della comprensione ebraica di Nisuin, Ezer Keneghdò e Davak.
Quando parlava della "carne" (σάρξ - sarx), doveva chiarire che non si riferiva solo al corpo fisico, ma, nel senso ebraico di בשר (basar), all'intera persona umana nella sua fragilità e, a volte, nella sua inclinazione al peccato.
La sfida era particolarmente acuta quando doveva spiegare la relazione tra la Legge e la grazia, tra la fede e le opere. Per un Giudeo come lui, la Torah era un dono divino. Come far capire ai Gentili il cuore della Legge mosaica, senza sminuire la santità della Legge stessa o aprire la porta al lassismo morale? E come spiegare ai Giudeo-cristiani che la salvezza non veniva dall'osservanza meticolosa dei precetti, ma dalla fede in Yeshua, senza sembrare uno che rinnegava le proprie radici?
Le sue lettere sono un testamento a questo sforzo titanico di comunicazione interculturale e interlinguistica. Sono il prodotto di una mente bilingue, anzi, quadrilingue, che attingeva a tutte le sue risorse intellettuali e spirituali per proclamare un messaggio che, pur essendo nato nel cuore di Israele, era destinato al mondo intero.
Sapeva che il rischio di fraintendimento era sempre presente. Sapeva che le parole, una volta scritte e inviate, avrebbero intrapreso un loro viaggio, sarebbero state lette e interpretate da persone diverse, in contesti diversi, magari senza tenere conto che, in origine, si trattava di corrispondenza privata, per comunità o persone specifiche e casi particolari. Ma confidava nello Spirito Santo, Colui che aveva ispirato le Scritture antiche e che ora guidava lui nella comprensione e nella proclamazione del Vangelo, affinché il cuore della rivelazione divina – l'amore redentore di Dio manifestato in Yeshua HaMashiach – potesse risplendere attraverso il velo, a volte opaco, delle parole umane.
Le sue epistole, nate da esigenze contingenti, sarebbero diventate nel tempo parte integrante del canone delle Scritture Cristiane, documenti preziosi che avrebbero nutrito, sfidato e guidato generazioni di credenti. Ma per comprenderle appieno, sarebbe sempre stato necessario, come Paolo stesso aveva dovuto fare, tentare di ascoltare l'eco della lingua e della mentalità che le avevano generate, per non perdere la perla preziosa del loro significato originale nel mare delle traduzioni e delle interpretazioni successive.
Capitolo 19: Roma: Confronto Finale con l'Impero
Dopo anni di viaggi estenuanti, di pericoli corsi per terra e per mare, di prigionie e flagellazioni, il desiderio di Paolo di raggiungere Roma, il cuore pulsante dell'Impero, si fece sempre più forte. Non per ambizione personale, ma perché sapeva che se il Vangelo avesse messo radici profonde nella capitale, la sua influenza si sarebbe irradiata in ogni angolo del mondo conosciuto. La sua cittadinanza romana, più volte invocata per sfuggire a ingiustizie e pericoli, lo aveva in qualche modo preparato e destinato a questo confronto finale.
Il viaggio verso Roma fu tutt'altro che trionfale. Arrestato a Gerusalemme a seguito di un tumulto fomentato dai suoi oppositori giudei, Paolo si appellò a Cesare, esercitando il suo diritto di cittadino romano per essere giudicato dall'imperatore stesso. Dopo una lunga detenzione a Cesarea Marittima, sotto i governatori Felice e Festo, e dopo aver testimoniato la sua fede davanti al re Agrippa II e a sua sorella Berenice, fu imbarcato come prigioniero per Roma. Il viaggio fu segnato da un terribile naufragio, durante il quale la sua fede e la sua leadership emersero con forza, salvando la vita a tutti i passeggeri e all'equipaggio.
Finalmente, dopo mesi di peripezie, Paolo giunse a Roma. Non come un conquistatore, ma come un prigioniero in catene, sebbene gli fosse concessa una certa libertà vigilata, potendo abitare in una casa presa in affitto, pur sotto la costante sorveglianza di un soldato.
A Roma, la sua conoscenza del latino divenne cruciale. Sebbene il greco fosse ampiamente parlato anche nella capitale, specialmente tra le classi colte e nelle comunità straniere, il latino era la lingua ufficiale dell'amministrazione, della legge e dell'esercito. Paolo dovette interagire con ufficiali, con funzionari di corte, e la sua capacità di esprimersi nella loro lingua gli conferiva una dignità e un'autorevolezza che altrimenti gli sarebbero state negate.
Ma anche a Roma, il suo cuore e la sua mente pensavano in ebraico. Quando riceveva i capi della comunità giudaica locale, spiegava loro il Regno di Dio, cercando di persuaderli riguardo a Yeshua, "attestando con la legge di Mosè e con i profeti, dalla mattina fino alla sera". Le sue argomentazioni, pur espresse in greco o in latino per farsi comprendere meglio, erano intrise della logica e delle categorie di pensiero della sua formazione farisaica e della sua profonda conoscenza delle Scritture.
Durante i due anni trascorsi in questa forma di arresti domiciliari, Paolo ricevette tutti coloro che venivano a lui, "predicando il regno di Dio e insegnando le cose relative al Signore Gesù Cristo con tutta franchezza e senza alcun impedimento". Immaginiamo le discussioni che si tenevano in quella casa romana. Filosofi stoici o epicurei, incuriositi dalla nuova dottrina, che lo interrogavano usando le sottigliezze della dialettica greca. Soldati romani, pragmatici e disciplinati, che ascoltavano parlare di un Re e di un Regno non di questo mondo. Giudei della diaspora, divisi tra la fedeltà alla tradizione e l'attrazione per il messaggio di un Messia crocifisso e risorto.
Paolo, con la sua straordinaria capacità di adattamento – "mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni modo alcuni" – sapeva come modulare il suo linguaggio. Con i Greci, poteva attingere a concetti filosofici per introdurre il Dio sconosciuto, come aveva fatto sull'Areopago di Atene. Con i Romani, poteva parlare di ordine, di giustizia, di cittadinanza celeste. Ma il nucleo del suo messaggio rimaneva incrollabilmente quello: Yeshua HaMashiach, morto e risorto, Signore e Unico Salvatore.
E quando parlava del significato più profondo della fede, della natura di Dio, del patto, del peccato e della redenzione, la sua mente tornava inevitabilmente alle radici ebraiche. Pensava all'Alef (א) di Dio, alla Sua unicità e sovranità, mentre spiegava il monoteismo a un uditorio politeista. Pensava al concetto di ‘Abb (אב), padre, quando parlava dell'amore paterno di Dio, così diverso dalle divinità capricciose del pantheon romano. Pensava al Davak (דבק), l'aggrapparsi fedele, quando esortava alla perseveranza nella fede.
Anche le sue lettere scritte da Roma, come quelle agli Efesini, ai Filippesi, ai Colossesi e a Filemone (le cosiddette "lettere dalla prigionia"), pur essendo in greco, portano l'impronta indelebile della sua mentalità ebraica. La visione cosmica di Cristo come capo di tutte le cose, la Chiesa come corpo di Cristo, la nuova umanità in cui non c'è più Giudeo né Greco, schiavo né libero, maschio né femmina – queste grandi teologie sono il frutto di una mente che aveva assimilato la vastità delle promesse dell'Antico Patto e le aveva viste adempiute e universalizzate in Yeshua.
Il confronto con l'Impero non era solo un confronto con il potere politico e militare di Roma, ma anche con la sua cultura, la sua filosofia, la sua visione del mondo. Paolo, armato della sua fede incrollabile, della sua erudizione e della sua padronanza delle lingue, si ergeva come un testimone di un Regno diverso, un Regno che non si imponeva con la forza delle legioni, ma con la potenza trasformante dell'amore e della verità.
Non sappiamo con certezza l'esito del suo primo processo a Roma. La tradizione suggerisce che fu liberato, continuò per un po' i suoi viaggi missionari, forse raggiungendo persino la Spagna come desiderava, per poi essere nuovamente arrestato e martirizzato a Roma durante la persecuzione neroniana.
Ma indipendentemente dai dettagli della sua fine, la sua presenza a Roma rappresentò un momento culminante. Il messaggio nato in una remota provincia della Giudea, proclamato nella Lingua Sacra dell'Eterno, aveva raggiunto la capitale del mondo, pronto a sfidare e, alla fine, a trasformare l'Impero stesso. E Paolo, il Giudeo di Tarso, cittadino romano, apostolo di Yeshua, fu lo strumento scelto per questo straordinario confronto, un uomo che, pur parlando molte lingue, non dimenticò mai la Voce e il Nome che gli erano stati rivelati in ebraico sulla via di Damasco.
Capitolo 20: La Eco Eterna del Nome
Il freddo della cella romana penetrava nelle ossa di Paolo, ma un fuoco diverso, quello della memoria e della certezza incrollabile, ardeva nel suo spirito. La sua corsa terrena volgeva al termine; il martirio, lo sentiva, era vicino. Non provava paura, solo una profonda, serena attesa di vedere finalmente faccia a faccia Colui per il quale aveva vissuto e sofferto.
Aveva trascorso le ultime ore dettando a Luca, il suo fedele compagno, il medico amato, la sua testimonianza per quella che sarebbe diventata la narrazione degli Atti degli Apostoli. La fiamma della lucerna tremolava, proiettando ombre lunghe sulle pareti umide. Paolo si era interrotto, lo sguardo perso nel vuoto, come se stesse rivivendo un momento cruciale.
"Luca, amico mio," disse con voce improvvisamente carica di un'urgenza sacra, "quando giungerai a narrare dell'incontro sulla via di Damasco, di quella Luce che mi avvolse e della Voce che mi parlò dal cielo, c'è un dettaglio da registrare, un sigillo, che ti prego di incidere con la massima cura, affinché risplenda attraverso i secoli."
Luca alzò lo stilo dalla tavoletta cerata, gli occhi fissi sull'apostolo, pronto a cogliere ogni sfumatura.
"Quando la Voce mi chiamò," proseguì Paolo, e la sua voce si abbassò, quasi a voler proteggere la santità del ricordo, "voglio che tu scriva, con chiarezza inequivocabile: 'Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una voce che mi diceva in lingua ebraica...'" Fece una pausa, e un'emozione profonda gli increspò la voce. "...Sha'ul, Sha'ul, lamah tird'feni?' E ancora, quando chiesi 'Chi sei, Signore?', la risposta mi giunse: 'Ani Yeshua asher attah rodeph.'"
"In lingua ebraica," ripeté Paolo, quasi sillabando le parole, il suo sguardo che cercava quello di Luca, per trasmettergliene tutta l'importanza. "Non in greco, per quanto eloquente, né in aramaico, per quanto familiare. Ma in ebraico. La lingua della Torah, la lingua dei Profeti, la lingua con cui l'Eterno stesso si è rivelato al Suo popolo. Il Signore Risorto, nella Sua gloria, scelse di parlarmi, di rivelarmi il Suo Nome, in quella lingua sacra."
Luca annuì lentamente, la fronte corrugata dalla concentrazione, consapevole del peso teologico di quella precisazione. Non era un semplice dettaglio linguistico, ma una chiave di comprensione.
Paolo si appoggiò allo schienale, gli occhi chiusi per un istante. Un pensiero, dolce e potente, attraversò la sua mente. Yeshua. Quel Nome. Quante volte Maria, la Sua Santa Madre, lo aveva pronunciato con amore infinito fin da quando Egli era un Bambino tra le sue braccia a Nazareth? Yeshua... Un nome comune, ma per lei carico di una promessa angelica, "Egli salverà il suo popolo dai loro peccati". Lo aveva chiamato per la pappa, per il gioco, per la preghiera serale. Lo aveva sussurrato con angoscia ai piedi della croce e con gioia incredula davanti al sepolcro vuoto.
Un sorriso impercettibile sfiorò le labbra di Paolo. Aveva la profonda, mistica convinzione, che quando un credente, in qualsiasi epoca, in qualsiasi lingua, riusciva a invocare il Signore con quella stessa intimità, con quella stessa fede semplice e profonda con cui una madre chiama il proprio figlio – specialmente se quel suono, pur in una lingua diversa, echeggiava la cadenza originale che le orecchie divine avevano udito per trent'anni dalle labbra più pure – allora Yeshua si voltava di scatto ad ascoltare. Si voltava, come un figlio che riconosce la voce amata, e ascoltava quella preghiera con un'attenzione particolare, con una tenerezza che scioglieva ogni distanza. Il Nome, pronunciato con amore, diventava un ponte diretto al Suo cuore.
Riaprì gli occhi e guardò Luca. "Sì, il Nome si diffonderà in mille lingue," mormorò, tornando al presente. "E questo è giusto, è necessario. Il Vangelo è per tutte le nazioni. Ma che nessuno dimentichi mai da dove proviene quella Luce, in quale idioma per primo si è svelato il Nome che è al di sopra di ogni nome. Che i credenti dei secoli futuri, quando leggeranno la mia storia, sentano l'eco di quella Voce ebraica."
Poi, i suoi pensieri presero il volo, al di là della cella, al di là del tempo.
Vedeva uomini e donne di ogni epoca, di ogni nazione, di ogni lingua. Li vedeva lottare con il dubbio, con la sofferenza, con il peso dei propri errori. Li vedeva cercare un senso, una speranza, un amore che non tradisse.
E a ciascuno di loro, in un sussurro intimo che solo il cuore poteva udire, la stessa Voce che aveva parlato a lui sulla via di Damasco, ora si rivolgeva.
A un filosofo greco del IV secolo, nelle biblioteche di Alessandria, intento a scrutare i misteri del Logos, la Voce si faceva eco nei testi antichi: "Eimi Iēsous. Io Sono Gesù."
A un monaco irlandese del VII secolo, curvo su una pergamena nello scriptorium di un monastero isolato, mentre le onde dell'Atlantico si infrangevano sulla costa, la Voce risuonava nella quiete della preghiera: "Ego Sum Iesus. Io Sono Gesù."
A un cavaliere castigliano del XIII secolo, di ritorno dalle Crociate, con l'anima divisa tra la ferocia della battaglia e la ricerca di una redenzione più profonda, la Voce parlava nella sua lingua madre, tra i campi di Spagna: "Yo Soy Jesús. Io Sono Gesù."
A un predicatore inglese del XVIII secolo, che attraversava le campagne a cavallo per portare il risveglio spirituale a operai e contadini, la Voce infondeva coraggio e parole di fuoco: "I Am Jesus. Io Sono Gesù."
A un compositore tedesco del XIX secolo, che cercava di esprimere l'ineffabile attraverso la potenza della musica, la Voce si manifestava nell'ispirazione di un corale maestoso: "Ich Bin Jesus. Io Sono Gesù."
A un umile contadino russo del XX secolo, che resisteva con fede silenziosa alle tempeste delle ideologie e delle persecuzioni, la Voce offriva conforto nelle notti gelide: "Az Yesm' Iisus. Io Sono Gesù."
A uno scienziato italiano del XXI secolo, che contemplava la vastità dell'universo e la complessità della vita, interrogandosi sul mistero dell'esistenza, la Voce poteva giungere come un'intuizione improvvisa, un lampo di significato: "Io Sono Gesù."
Attraverso i secoli, attraverso le culture, attraverso il velo delle traduzioni e delle interpretazioni, la stessa Identità Divina si rivelava, adattando la sua forma all'orecchio e al cuore di chi ascoltava, ma rimanendo fedele alla sua essenza.
Paolo sorrise di nuovo, una pace profonda che inondava il suo essere. La sua insistenza sulla "lingua ebraica" non era per legare Dio a un idioma, ma per ancorare la rivelazione alla sua storia, alla sua concretezza, per ricordare che il Dio universale si era incarnato e fatto conoscere in un tempo e in un luogo specifici, attraverso un popolo specifico, adempiendo promesse specifiche.
E ora vedeva, con una chiarezza che trascendeva ogni erudizione, che quella stessa Voce, quell'identico "Io Sono", avrebbe continuato a parlare. Avrebbe continuato a dire a ogni uomo, a ogni donna, in ogni generazione, nella lingua del loro cuore, nella lingua della loro necessità più profonda:
"Io Sono la Salvezza dell'Eterno. Io Sono Colui che tu stai cercando, anche quando non sai il mio Nome. Io Sono Colui che ti perseguita con il mio amore, anche quando fuggi da me. Io Sono la risposta alla tua domanda più profonda, la guarigione della tua ferita più nascosta, la speranza della tua disperazione più oscura."
Fino al giorno in cui, alla fine dei tempi, quando tutte le cose sarebbero state ricapitolate in Lui, quando il Figlio avrebbe consegnato il Regno al Padre, allora, forse, nella Nuova Gerusalemme discesa dal cielo, tra un popolo redento da ogni tribù, lingua e nazione, il Nome sarebbe risuonato di nuovo nella sua forma primigenia, compreso da tutti nel suo pieno significato, come un sigillo finale di un amore eterno:
"Ani Yeshua."
E in quella certezza, l'anima di Paolo trovò il suo riposo finale, pronta a unirsi al coro celeste che proclamava quel Nome in una sinfonia di lingue e di cuori redenti, uniti nell'Unico Signore. La sua missione era compiuta. La Parola continuava il suo viaggio.